giovedì 20 maggio 2010

TANTE BELLE COSE DA PAUL GIAMBARBA

Intervista al designer di origini molisane che ha curato l'immagine ed l'identità del marchio Polaroid dal 1958
di Maurizio Oriunno

Le sue creazioni hanno accompagnato la nostra vita e hanno contribuito ad immortalare i ricordi di milioni di esseri umani sparsi nel globo. I suoi lavori più recenti sono esposti dal 18 dicembre dello scorso anno negli interni dell’International Center of Photography di New York. La vita di Paul Giambarba è legata indissolubilmente a quella della Polaroid. Di origini molisane, proveniente da una famiglia di Casacalenda, in provincia di Campobasso, Paul Giambarba è uno storico ed affermato cartoonist, designer, scrittore ed illustratore che oggi vive a Cape Cod nel Massachusetts.

Ottantadue anni, Giambarba ha curato l’immagine e l’identità della Polaroid sin dal 1958. E’ una sua creazione, infatti, l’innovativo packaging nero con le onnipresenti strisce di colore sulle confezioni di pellicole e macchine fotografiche dagli anni sessanta ad oggi. In cinquant’anni di carriera ha progettato e realizzato centinaia di modelli per la Polaroid ma è stato anche consulente di design per i giocattoli della Tonka Corporation, per la Gillette Company International oltre che per l'Aga Khan. I suoi lavori sono stati recensiti in tutto il mondo, ha scritto una dozzina di libri, ha fondato riviste come the Scrimshaw Press e CapeArts Magazine; come illustratore e cartoonist ha lavorato per Sports Illustrated, This Week Magazine, True e Spy Magazine.
Tra passato e presente, con le opere esposte a New York (una nuova collezione di quindici confezioni di pellicole e di tre sue famose “scatole contenitore” per macchina fotografica Polaroid), che rappresentano senza dubbio il futuro prossimo della “istantanea”, Giambarba ha aderito all’Impossible Project. Ideato da Florian Kaps e André Bosman, l’ambizioso progetto impossibile, intende, in piena epoca digitale, ridare entro quest’anno al mercato europeo tutti gli accessori (pellicole, acidi, lenti), indispensabili per continuare a scattare le istantanee della Polaroid, altrimenti inutilizzabili, dopo la decisione di dismettere interamente la produzione con la chiusura dell’ultimo stabilimento in Olanda.
Raggiungiamo Giambarba tramite Facebook e, dopo le presentazioni di rito e la necessità di comunicare in inglese (“Il mio italiano è quello del 19° secolo, quello che parlavano i miei nonni” mi scrive, scusandosi cordialmente), ci addentriamo nell’intensa vita creativa di Paul Giambarba
Partiamo dal Molise, luogo dal quale i suoi antenati partirono alla volta degli States. Un cammino comune per centinaia di famiglie. Come è riuscito a legare un italoamericano il suo amore per l’arte e per il segno nell’America post bellica ad una grande corporation come Polaroid?
“C’erano forti pregiudizi contro di noi da parte della classe operaia di Boston di origine irlandese con tanto bullismo, la stessa cosa non era tanto evidente tra gli Yankees di ceto medio alto. Ho sempre pensato che, dopotutto, il matrimonio misto tra i cattolici italiani e irlandesi era il modo migliore per andare d’accordo con loro. D'altra parte, però, ho optato per il matrimonio con gli anglo protestanti perché ho trovato queste ragazze più simpatiche e disposte a sposare qualcuno che non aveva un posto di lavoro "convenzionale". Potrebbe essere difficile per gli italiani di oggi capire che prima del 1950 in America, quasi tutti quelli di origine italiana erano totalmente ignoranti della storia d'Italia prima di Mussolini e la diffusione del fascismo. Direi che oggi la maggior parte di loro lo sono ancora. Ma sto divagando. E’ stata semplicemente una questione di fortuna. Nel 1955 mi è capitato di incontrare a Boston un vecchio collega durante una serie di incontri con alcuni clienti. Mi disse che sua moglie era gravemente malata e pensò che avrei potuto essere in grado di fare un certo lavoro per un suo cliente, la Polaroid Corporation, appena oltre il fiume Charles, a Cambridge. Incontrai il cliente, un tipo molto simpatico, che rimase molto colpito dai miei lavori per Sports Illustrated. Successivamente cominciai a ricevere più lavori quando io e la mia giovane moglie tornammo negli States dopo sette mesi di viaggio in Europa occidentale. I miei cartoon ci avevano permesso di acquistare una piccola casa, che abbiamo venduto per finanziare il viaggio, nonché il passaggio per i miei genitori che abbiamo incontrato a Roma quando abbiamo fatto visita alla nostra famiglia lì, a Napoli e a Casacalenda. I nostri viaggi hanno coinciso con quella che era un epoca d'oro per il design in tutta Europa, tornai ispirato e convinto che avrei potuto aiutare la corporate identity della Polaroid. Può sembrare presuntuoso da parte mia ma la sua immagine all’epoca era così incompetente che qualsiasi cambiamento sarebbe stato un miglioramento. Iniziò così una collaborazione lunga ventotto anni, che è una durata di vita insolitamente lunga per un cliente, in cui ho creato centinaia di modelli di package, che erano in realtà le icone di identità del prodotto. Non sono mai stato un dipendente, ho lavorato solo come freelance, in qualità di art director, designer e consulente per il design. E' stato più importante per me lavorare a casa, gustare ogni giorno i pasti con mia moglie ed i mie figli, così come nuotare e pescare nella acque di Cape Cod quando le stagioni ed il tempo lo permettevano. Avevo visto abbastanza della vita aziendale ed avevo sopportato troppe riunioni noiose con i clienti e sapevo che non era la vita adatta a me. Guidavo fino a Cambridge ogni settimana per pranzare con i miei clienti e riportare a casa incarichi su cui lavorare. E’ stato il modo ideale per fare un lavoro creativo…”

La sua attività professionale ed artistica ha attraversato momento storici importanti. Come ha vissuto l’evoluzione del segno nel corso di questi decenni?
“Confesso che non ero ignaro delle tendenze nella grafica durante i decenni del secolo scorso. Tuttavia, ho ostinatamente lasciato che il mio lavoro fosse fedele al mio temperamento ed al mio stile. La maggior parte del lavoro visto in Svizzera e in Italia aveva poco in comune con le sfide che affrontavamo a quel tempo negli Stati Uniti. Continuo a divertirmi nel vedere tre colonne di testo in inglese oggi perché un disegnatore americano ha copiato il progetto svizzero in tre lingue di cinquanta anni fa. Alla fine degli anni ’70 c'era poco da vedere in Europa, poiché poster e gallerie d'arte erano diventati per me banali. Penso che sia coinciso con l'esportazione americana di fast food in franchising e con la globalizzazione commerciale. Probabilmente è stato un periodo in cui contavano più i commercialisti (bean – counters) ed il profitto piuttosto che l’estetica ed il buon gusto.”
Torna spesso in Italia? Il nostro paese ha vissuto una florida stagione legata all’arte ma anche al design e al mondo della moda. Le interessa quello che accade dall’altra parte dell’Oceano?
“Sono tornato in Italia recentemente nel 2006 e nel 2003 per celebrare il 75esimo compleanno ed i 40 anni di mio figlio. Abbiamo visitato la nostra famiglia a Casacalenda, siamo stati poi a Ravenna, Roma e nel Canton Ticino. Prima ho fatto molti viaggi con mia moglie ed i miei figli nell’estate del 1971 e del 1972, quando ho avuto un contratto di sei mesi in Costa Smeralda dall’Aga Khan.”
Proprio a Casacalenda da circa due anni è stato riaperto un cinema che rappresenta l’unica sala in un territorio sconquassato dal terribile sisma del 2002. Sempre nel paese dei suoi nonni c’è un festival “Molisecinema”, che ogni anno cresce in termini di qualità e di riscontro su tutto il territorio. Paul Sorvino e sua figlia Mira anch’essi hanno origini di Casacalenda. Se la sente di proporre loro una rimpatriata? Sareste dei testimonial eccezionali per una terra dalla quale molti giovani fuggono ancora…
“Paul e Mira Sorvino sono Vip e dubito che siano interessati all’argomento. Tengo tutti e due in alta considerazione e farei qualsiasi cosa necessaria per la tua proposta.”
Come percepisce il Molise dalla sua residenza di Cape Cod?
“Curiosamente, l'unica volta che ho incontrato molisani durante la mia vita è stato al Chateau Laurier di Ottawa, in Canada, quando insieme a due miei colleghi sergenti di artiglieria ho passato una notte di un week-end. Era quasi 60 anni fa e non riesco a ricordare i dettagli ma credo che due del personale di sala fossero di Campobasso, o addirittura di Casacalenda. Mio cugino Michele mi ha detto che ci sono molti casacalendesi a Montreal, ma non sono andato mai a cercargli. Ho letto Giose Rimanelli quando fu pubblicato la prima volta negli Stati Uniti e seguo su internet tutto quello che posso trovare sul Molise. Mi sento vicino ma, ahimè, come un estraneo. Sono trascorsi circa 120 anni da quando mia nonna Adelina Colucci arrivò a Castle Garden (costruita prima di Ellis Insland) in una giornata fredda ed ostile di dicembre. A proposito, fu lei che mi insegnò a disegnare e sarò per sempre suo debitore. Povera anima, ha resistito 55 anni in una terra straniera, senza avere mai l'opportunità di ritornare, come previsto, a Casacalenda. Sedici anni dopo il suo arrivo, mio nonno Federico morì improvvisamente e la sua morte prematura e le due guerre mondiali, resero impossibile il loro ritorno."

Infine “The impossibile Project”. Il passaggio al digitale ha rappresentato uno spartiacque epocale nel mondo della fotografia, eppure in Inghilterra fino a pochi anni fa si vendevano a Natale circa 55mila macchine Polaroid istantanee. Ritiene valido il progetto di riportare la fotografia istantanea tra le famiglie europee?
“Personalmente non ho aspettative. E’ solo un incarico freelance. Ho fatto i disegni per la Special Edition e per le camere che portano il mio nome. Questa, del resto, era l'idea di Florian Kaps che è venuto a Cape Cod per chiedermi di partecipare al progetto. Ovviamente ho accettato il lavoro - non ci sono molti clienti per un progettista di 80 anni in questo Paese. Penso comunque che abbiano dimostrato grande coraggio nell’assegnarmi il progetto.”
Paul Giambarba mi saluta con un “tante belle cose”, una tenera forma di saluto tipica dell’Italia dei miei genitori ed ormai desueta e dalla quale, nonostante la freddezza del mezzo tecnologico, percepisco l’immagine di un Paese che ormai non c’è più e che, probabilmente, continua a vivere ancora proprio tra gli italo americani di prima generazione. Quell’Italia delle buone maniere e del rispetto del galateo, che sa di rasature fresche di barbiere e acqua di colonia, di strette di mano vigorose e di brindisi accompagnati da sguardi diretti e rispettosi. Un Italia lontana da quella insolente e scollacciata che oggi il mezzo televisivo vorrebbe porci dinanzi come unico modello di riferimento. Grazie Mr. Giambarba, tante belle cose anche a lei.

Copyright Il Bene Comune

sabato 1 maggio 2010

GIAMPIERO

Quattordici anni ma fumava già un pacchetto di emmesse al giorno. Giampiero correva con il suo scooter senzacasco ogni giorno tra Via Gramsci e il bowling con il suo giubbotto borchiato di stelle gialle. Un generale sul suo destriero ritto sulle zampe posteriori. Gli occhiali all'ultima moda comprata al mercato del mercoledì di Via Einaudi. Giampiero lavorava come aiuto manovale con lo zio, altro manovale inzuppato nell'aulin mattutino per assorbire il dolore ed il freddo di troppe mattine gelide, di pomeriggi afosi e di notte umide trascorse sui cantieri. Lavoravano al nero, in coppia da tre anni, per qualche piccola ditta edile di ex muratori arricchiti o di geometri senza passione. A scuola non ci andava più da quando suo padre se n'era andato di cirrosi epatica. Erano venuti i carabinieri a casa e pure quelli del comune, ma lui a scuola non voleva andarci. La mamma cuciva qualche volta e faceva le pulizie nei palazzi di Vazzieri. Vivevano nelle case popolari di Via Matteotti, in palazzine con mattoncini marroni e cemento grigio, scritte sui muri scrostati dal gelo e dal tempo inneggiavano alla Juventus. La mamma non parlava molto. Andava in chiesa, guardava la televisione, preparava la cena. Non parlava quasi mai la madre di Giampiero. Ogni tanto parlava con la signora Pina, riusciva a sorridere qualche volta con Zio Peppino solo la domenica davanti alla pasta al forno. Giampiero passava ogni giorno sotto la finestra dove si affacciava Marta. Dalle sei alle nove, sopra e sotto, sotto e sopra, fino a quando finiva la benzina. Marta era figlia di impiegati pubblici, quarti e quinti livelli con le ferie assicurate, la casa popolare, il sogno di avere piùsoldi per comprarsi il televisore piùgrande e la parabola per la juventus. La pizza il sabato sera comprata da asporto, Fiorello e birra forst. Un amaro, l'ultima sigaretta e a letto aspettando la domenica per lavare l'automobile comprata a rate. Marta voleva andare al ragioneria perché pure quella cretina della sua amica Francesca ci voleva andare. Voleva diventare come quelle signore col tailleur che si vedono per il corso con la cartella in mano, camminano a passo veloce e sembra che sono importanti. Ma Giampiero gli piaceva. Aveva lo sguardo sveglio ed il corpo scolpito dai pesi dei secchi di sabbia e dai manubri dei cristi di ferro. Si erano conosciuti alla panchine del Parco dei Pini l'estate scorsa. In mano aveva il cd napoletano di Gigi D'Alessio ed un fiordifragola appena scartato. Gli occhiali a specchio, il jeans e la tshirt dolce e gabbana. Ascoltava da lontano il rumore della marmitta ad espansione dello scooter buster di Giampiero e ogni tanto, con civetteria, si fermava dinanzi la finestra per farsi vedere. E a Giampiero gli pigliava un colpo e sudava ogni volta che riusciva ad intravedere la sagoma di Marta alla finestra. Era novembre e fra poco non si lavorava più perchè veniva la neve e poi natale, i botti di capodanno, lo spumante, la puzza di fritto, il setteemezzo, il veglione della chiesa. Eppoi la befana, gli piaceva rimanere a casa a Giampiero al caldo. Si, ogni tanto doveva aiutare lo zio per fare qualche piccolo trasloco, qualche pittura, qualche facchinaggio. Ma lui era grande e grosso proprio come il padre prima che cominciasse a bere così forte. Prima l'aperitivo, poi il campari alla mattina, eppoi lo stravecchio e la vecchia romagna, eppoi il vino della cantina, eppoi il fegato che ti corrode l'anima e diventi violento, eppoi pugni alla mamma e porte spaccate, eppoi puzza di vomito e di sudore. Se ne era andato da tempo e Giampiero ormai ricordava solo la puzza di vomito di quell'uomo e i pianti della madre. Era forte Giampiero, con gli altri ragazzi non faceva amicizia, andavano a scuola, lui no. Era forte Giampiero, aveva il suo scooter ed era innamorato di Marta. Era forte Giampiero anche quando l'impalcatura di quel cantiere a San Giovanni crollò. Sorrise allo zio, con il torace fracassato, prima di spirare per l'ultima volta. Era forte Giampiero, non saprà mai se Marta era davvero innamorata di lui. Non saprà mai perchè sua madre parlava sempre così poco. Era forte Giampiero anche quando la sua morte scatenò l'ennesima campagna di stampa contro il lavoro minorile: tre giorni su un quotidiano locale per poi sparire per sempre. Era forte Giampiero, addirittura qualcuno propose una mozione alla regione per denunciare la piaga del lavoro nero. Era forte Giampiero, ora nel luogo dove ha aspirato l'ultima emmesse apriranno un centro commerciale e le signore di San Giovanni potranno fare meglio la spesa tra stipendi che non bastano mai e prezzi sempre più alti. Tre etti di macinato, una bottiglia di latte, un chilo di pane, sei uova e le brioscine per il nipotino. Era forte Giampiero, forse gli intitolano una strada...

Tratto da "Dio c'è, non ce fa" Raccolta di racconti inediti di Maurizio Oriunno