mercoledì 23 maggio 2007

ANNI RUGGENTI 1920 - 1930




La Campobasso Felix raccontata da Giuseppe Tabasso
Edizioni Enne maggio 1999

In quegli anni, la città era piena di fermenti. Come scrive Venanzio Vigliardi nella premessa al suo libro Trent'anni sotto il Monforte, Editrice Lampo, 1982, Campobasso era "una città diversa da quella di oggi per tanti aspetti, ma molto interessante e ricca di umori e di umanità .
Del resto, il fatto stesso che per dar linfa alla cultura locale si andasse fuori a cercare artisti e che per rilanciare un teatro come punto di riferimento regionale si costituisse non certo in vista di trarne grandi profitti personali – una società, era un segnale che denotava spirito d'iniziativa, mentalità aperta e desiderosa di sprovincializzarsi tenendosi al passo coi tempi (a proprie spese).
Dunque in quella Campobasso felix sua città d'elezione, Lino Tabasso trovò un'accoglienza superiore ad ogni più rosea aspettativa, un clima di straordinaria apertura e una vera e propria fame di novità che gli permisero subito di entrare in contatto con chiunque avesse ambizioni (o velleità) artistiche o che sentivano semplicemente il bisogno di esprimersi in qualche modo.
Tanta accettazione e simpatia fu ricambiata dal giovane musicista facendo abbattere sul Capoluogo un'ondata di novità e una ventata di belle epoque, già n atto del resto in altre città della Penisola. Come ricorda Luciano Ramo nella citata Storia del varietà, "non c'è capoluogo o centro grosso o piccolo, che non abbia il suo Apollo, il suo Eden, il suo Kursaal o il suo Orfeo: si può anzi dire che i locali di provincia sono i preferiti dalla stragrande maggioranza degli artisti di café chantant".
Così Campobasso divenne musicalmente vivissima e, nel suo piccolo, una mèta "tentacolare" per tutti i molisani, prima costretti a sobbarcarsi a faticosi viaggi per Napoli o per Roma. Cominciarono ad arrivare in città complessi ed autori di grido, sia nel campo della lirica (citiamo per tutti Ermanno Wol fFerrari e il grande musicista e direttore d'orchestra larinese Adriano Lualdi che al Savoia diresse la sua Granceola), sia nel settore "Varietà" (operette, riviste e avanspettacoli) che in quello della prosa. Per il principale teatro cittadino (e molisano) passarono decine e decine di grandi compagnie e tutti i più popolari artisti dell'epoca, da Nicola Maldacea a Gennaro Pasquariello, da Odoardo Spadaro ad Armando Gil (autore ed interprete di Come pioveva, Quando di maggio, ecc.), da Raffaele Viviani, uno dei grandi del teatro napoletano (che vi recitò con la sorella Luisella) fino a Dina Galli, Emma Gramatica, Eisa Merlini, Angelo Musco, Nino Taranto, Lucy d'Albert, Umberto Melnati e Vittorio De Sica interprete di Mezza dozzina di rose scarlatte.
Va infatti ricordato che anche le più note compagnie musicali di giro non potevano permettersi il lusso finanzia rio di portarsi dietro dei complessi musicali, e dunque le loro tourneé toccavano solo i teatri che disponevano di proprie orchestre. Fu appunto questa la ragione che indusse il Consiglio di amministrazione del Modernissimo prima e del Sociale poi a dotarsene di una stabile, chiamando Lino Tabasso.
L'impegno di lavoro era molto intenso, poiché si trattava di adattarsi in tempi strettissimi ai repertori delle singole compagnie nel giro di poche ore, facendo fin dal mattino estenuanti prove che spesso si prolungavano fino a pochi minuti prima dall'alzata del sipario. Per essere all'altezza del compito era perciò indispensabile disporre di "orchestrali" (come si chiamavano allora i professori d'orchestra) ottimamente affiatati e flessibili ai vari generi di spettacolo, che andavano appunto dal repertorio classico a quello leggero, fino a quelli del nascente jazz che venivano allora chiamati "ritmi sincopati".
In questo senso Lino Tabasso lavorò su due direzioni, facendo venire da Napoli valenti primi violini (tra cui il M° Vincenzo Furia, che rimase vari anni a Campobasso prima di rientrare a Napoli) e attivando giovani talenti locali: vanno in questo contesto doverosamente ricordati (in ordine alfabetico) i nomi di Peppino Cincindella, Arcangelo Maglione, Gennarino Mastropietro, Ferdinando Oriunno, Alberto Pace, Edmondo Rossi, Erminio Sallustio, Felice Valente, ai quali vanno ovviamente aggiunti quelli di due gloriose famiglie di musicisti campobassani: gli Aurisano (padri e figli) e i mitici fratelli Izzo (Antonio, Giovanni, Pasquale e Pippo).
Sono "anni d'oro" per la vita musicale di Campobasso e, quindi, per l'intera regione: non va dimenticato infatti che a quel tempo, quando cioè il Molise aveva una sola provincia e non era autonomo dall'Abruzzo, il capoluogo svolgeva una funzione culturale (e politica) decisamente più "centripeta" di quanto non riesca a svolgere ora.
Intanto i "ruggenti" anni '20 volgono al termine, il progresso tecnologico incombe e nel dicembre del 1931 anche nel Molise viene praticamente decretata la morte di un'epoca per così dire "artigianale" e la nascita di un'era "tecnologica". Inizia il declino della musica dal vivo, scoppia il boom di quella riprodotta. Per la prima volta al Savoia viene proiettato un film sonoro: s'intitola La canzone dell'amore, un film musicale, come tutti quelli che segnarono l'avvio del genere (Il cantante di jazz e Il cantante pazzo, entrambi interpretati da AI Jolson, sono rispettivamente del 1927 e del 1928). È una novità sconvolgente, paragonabile alla nascita della televisione o di Internet. Ma fa delle "vittime", la prima delle quali è il vecchio cinema Molisano, detto "Pidocchietto".
Lino Tabasso ha poco più di 35 anni: il suo incarico a tempo pieno presso il Savoia viene fatalmente ridimensionato ed è ormai destinato ad esaurirsi. La sua carriera è di nuovo ad una svolta non facile. Qualcuno gli propone di tornarsene a Napoli, ma rifiuta: il Molise è ormai il suo terreno creativo. La città gli ha dato molto e in essa il suo duttile estro e il torrente della sua fecondità artistica ha trovato un alveo naturale dal cui corso egli non riesce ormai a staccarsi.
In tutta la regione fioriscono intanto "Piedigrotte", "Feste dell'uva" e "Popolaresche" che hanno il loro epilogo finale a Campobasso. Fin dal 1925, quando Tabasso era da poco ospite della città, la Ia edizione della "Piedigrotta molisana" gli aveva offerto l'occasione di debuttare in veste di compositore. Ma non fu un'operazione semplice. Per lui si era trattato di compiere una ricon versione dalla grande tradizione partenopea al folklore molisano: la sua prima composizione - E 'ffemmene ch' e' palle, versi di Vittorio De Gregorio- è un trait d'union fra l'illustre cultura musicale respirata a Napoli e la tradizione abruzzese-molisana: mutatis mutandis fu un'operazione analoga a quella compiuta nientemeno che da Gabriele D'Annunzio con Francesco Paolo Tosti, entrambi abruzzesi, con la canzone 'A Vucchella scritta appunto in dialetto napoletano, che era un po' la lingua della canzone italiana del tempo.
Insomma il sannita "caudino" Lino Tabasso diviene "pentro" dopo aver sciacquato i panni nel Golfo di Napoli.
Su questa "conversione" dalla grande tradizione musicale assorbita a Napoli a quella, certamente povera e rurale, del Molise, Giuseppe Tabasso ci fornisce un'indicazione di un certo interesse sotto il profilo tecnico: «Mio padre - racconta - si pose seriamente il problema del "trapianto" e del relativo cambiamento di stile analizzando in particolare anonimi motivi folk eseguiti col du' botte, cioè con quel classico strumento popolare che è l'organetto a bottoni, ascoltando il quale riflette sulla circostanza che con esso non fosse tecnicamente possibile suonare nella cosiddetta tonalità minore.
Questa tonalità - ottenibile diminuendo di appena mezzo tono un accordo di terza in tonalità maggiore (mi si perdoni la digressione didattica, superflua per i lettori pratici di pentagramma) - è quella - che, detto in soldoni, conferisce una percezione di malinconia ai brani musicali. È quella che, a ben guardare, "rompe" l'ingenuità, l'immediatezza, la mancanza di ambiguità e la semplicità di schemi della musica popolare: e difatti col gioioso ed esuberante du' botte è appunto tecnicamente impossibile suonare in tonalità minore. A questa fondamentale "scoperta" - che beninteso non comportava necessariamente l'abbandono della minore e un rigido ossequio alla maggiore - fu dunque improntata da allora tutta la vasta produzione musicale di mio padre. Mi piace aggiungere, per inciso, che egli era un vero e proprio specialista nelle "introduzioni", cioè in quelle poche battute iniziali che, nello schema classico delle canzoni di un tempo, servivano a preannunciare il "tema", un po' come le ouvertures nelle opere liriche.»

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