sabato 10 marzo 2012

Gaetano Meomartino e il Mucchio Selvaggio in Molise



Transitando lungo l’unica arteria che congiunge il Molise centrale alla costa è facile fantasticare l’esistenza di feroci pellirosse e sanguinari banditi nascosti lungo i crinali di certe colline, identiche a quelle immortalate in tante pellicole di scalcagnati spaghetti western negli anni ‘70. Guardando a quanto accaduto tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 nelle campagne della Capitanata che si estendevano tra il nord della Puglia ed il Basso Molise, il paragone esiste, eccome.
Come nel Far West sporco, puzzolente, povero e feroce di Sergio Leone, nella nostra storia locale non meno sporca, puzzolente, povera e feroce di quella narrata dal regista di “Per un pugno di dollari”, sono esistiti personaggi dalle personalità complesse, veri e propri antieroi, che hanno vissuto, ucciso e fatto uccidere senza troppi scrupoli. La storia di Gaetano Meomartino, capo di una compagnia di mercenari a cavallo, è una di queste.
Personaggio inquieto, una sorta di primula rossa che ha saputo navigare per quasi venti anni tra l’occupazione francese del Regno di Napoli, la carboneria, la corte borbonica a Palermo e i sanfedisti, venendo trucidato dalle Regie Milizie del Molise residenti ad Ururi (comune arbreshe molisano), insieme ai suoi fratelli e alla sua banda di contractors ante litteram. Non un semplice brigante, dunque.
“Fra i suoi occulti protettori vi erano cittadini d'ogni classe sociale, funzionari governativi, magistrati perfino; e quindi, o per spirito settario, o per tema, o per interesse, o per altri ignobili motivi, una fitta rete d'informatori favoriva il bandito, tutti in gara a prevenirlo dei progetti e delle disposizioni dell'Autorità costituita.” Così scriveva lo storico Giambattista Masciotta nel quarto volume dell’opera “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” nel 1952, raccontando le gesta del Meomartino.
Lo storico racconta con dovizia di particolari tutta la vicenda che ebbe addirittura l’opportunità di essere immortalata nel 1963 nel film “L’ultima carica”, per la regia di Leopoldo Savona. Ovviamente la trama è lontanissima da fatti realmente accaduti e raccontati dal Masciotta. Il soggetto narra di una storia d’amore nata tra il brigante - patriota Rocco Vardarelli (Tony Russell) e Claudia (Haya Harareet), una bella aristocratica, ai tempi della dominazione francese. Nel cast anche un giovanissimo Oreste Lionello. Tra gli sceneggiatori anche Bruno Corbucci.
Ma chi era Gaetano Meomartino e perché la sua banda era chiamata dei Vardarelli? Nato il 13 gennaio 1780 a Celenza Valfortore, viveva a Castelnuovo delle Daunia quando fu chiamato nelle fila dell’esercito dalle circoscrizioni murattiste. “Giovane di torbido animo, manesco, indisciplinato, anelante ad elevarsi in condizione sociale per desiderio di ozii beati” scriveva Masciotta, Meomeartino fuggì in Sicilia come disertore ben sapendo che la Corte borbonica accoglieva tutti i “profughi” del continente, senza spesso indagarne le origini. Un fuga che durò qualche anno prima di dover fuggire per evitare la galera. Tornato nella sua terra d’origine si mise alla testa di una numerosa banda di malviventi che, secondo le cronache, montava buoni cavalli ed era fornita delle migliori armi in circolazione. Meomartino era smanioso di dare fastidio all’occupazione francese, convinto della prossima restaurazione dei Borboni sulla terraferma. Da Napoli milizie scelte furono inviate per affrontare la banda dei Vardarelli ma la banda “si sciolse misteriosamente come misteriosamente si era formata”, e Gaetano tornò nuovamente in Sicilia dove i suoi delitti furono considerati ottimi requisiti nei confronti dell’usurpatore francese e dove venne nominato Sergente del Corpo delle Guardie.
Arrivò la restaurazione borbonica che non tenne fede alla promessa di una riforma agraria e Meomartino nello stesso anno (era il 1815) disertò nuovamente per mettersi a capo di una banda ancor più numerosa, insieme ai fratelli Giovanni e Geremia. I Vardarelli contavano cinquanta uomini a cavallo: in breve tempo, scrive ancora il Masciotta “acquistò funesta rinomanza di coraggio temerario e di potenza indomabile nell'intera Capitanata. Era invocato dai poveri contro gli abusi e le prepotenze dei ricchi: ed egli accorreva prontamente e faceva vendetta, riservando a sè ed ai suoi la parte leonina delle spoglie.” Fu così che il nome della banda divenne popolare. Con la base situata nell’alta valle del Fortore, Meomartino faceva partire rapide incursioni in Capitanata, Molise, Irpinia, Terra di Bari e Terra d’Otranto, giungendo ad accordarsi politicamente anche con il prete brigante Don Ciro Annicchiarico.
Il nome della banda derivava dal mestiere del padre dei Meomartino che era un vardaro, un costruttore di basti e selle speciali per asini e muli; i figli del "vardaro" erano ovviamente i "vardarielli". Nonostante tutti gli sforzi il governo borbonico non riuscì a fermare la banda che conquistava sempre più le simpatie delle masse rurali ma anche quelli della Carboneria: secondo il Masciotta Meomartino infatti “rivestiva un grado nella formidabile setta; onde riusciva a sapere, in precedenza all'esecuzione, gli ordini spiccati contro di lui, e perfino le misure che erano allo studio o in via di maturazione.”
Pur di tenere buona una provincia sterminata e ricca per le sue magioni, il governo borbonico nel 1817 tratta con la banda, concedendo il perdono. E’ il ministro di polizia, il marchese Luigi de Medici, a trasformare la banda in squadriglia autonoma di armigeri, sottoposta agli ordini dei Generali comandanti delle provincie, assegnando lo stipendio mensile di 30 ducati ai militi, di 45 ducati a ciascuno dei germani del Capo, e di 90 ducati a Gaetano Meomartino. Una sorta di contractors ante litteram, una pratica comune nel passato (basti pensare a come la corona inglese si era avvalsa dei corsari nella lotta contro gli spagnoli), che in breve tempo ripulirono la Capitana da tutti i malviventi. Questa posizione controversa era vissuta in maniera guardinga dalla banda che comprendeva la stranezza della propria situazione giuridica e morale. Correva voce, inoltre, che l’onta della nomina sarebbe stata presto lavata con il piombo e non con il denaro promesso. Malgrado ciò, scrive Masciotta “Il Governo centrale… non riusciva, peraltro, a trovare un ceffo capace di tentare una minima impresa contro il Meomartino e i suoi.”
Il pretesto si presenta quando i Vardarelli rifiutano di essere trasferiti a Sora per sedare una rivolta dei militari all’interno della fortezza di Gaeta. Essi non volevano, infatti, allontanarsi dalle loro terre. Il re, però, considera il rifiuto come un atto di diserzione e decide la fine della banda. Il generale Church riceve il comando delle forze per la repressione del brigantaggio e si trasferisce a Barletta, dove insedia il suo quartier generale. La capitolazione della banda arrivò per puro caso. Meomartino spesso si fermava ad Ururi per fare rifornimenti, cittadina che da venti anni era scossa da una faida tra due importanti famiglie: gli Occhionero ed i Grimani. Una faida nata durante l’occupazione francese che vedeva protagonista il comandante delle truppe francesi di passaggio che, ospite nella casa di Nicola Grimani, aveva superato il limite imposto dalla convenzioni locali riguardo alla cortesie nei confronti della moglie dell’Occhionero, dirimpettaio del Grimani. Da qui nacque un alterco tra il comandante francese e lo stesso Occhionero che finì schiaffeggiato. “Nell'animo dell'oltraggiato – scriveva il Masciotta - sorse ed ingrossò poi il sospetto che il Grimani avesse suggerita la visita al manesco comandante, donde nacque un livore che per oltre mezzo secolo perdurò, alimentato scambievolmente e tenuto desto con aggressioni, incendi, abigeati, calunnie, appostamenti, assassinii, e tutto ciò che le passioni più cieche possono ideare ed il braccio eseguire.” Come nel Mucchio Selvaggio le incursioni dei Meomartino si fecero sempre più truculente: nel corso di questa rivalità i Vardarelli, alleato con Emanuele Occhionero poiché Gaetano aveva battezzato la figlia Giacinta, avevano ucciso trecento suini nella masseria dei Grimani; una seconda volta ottanta vacche; una terza volta avevano dato fuoco ai campi coltivati e, l’ultima, avevano violentato tutte le donne di casa dinanzi agli uomini legati. Episodi che reclamavano vendetta: i Grimani allertarono dalla vicina Portocannone il distaccamento delle Regie Milizie del Molise al comando del tenente Nicola Campofreda. Meomartino, del resto, era diventato una presenza difficile da gestire anche per lo stesso Occhionero che era infastidito dalle sue frequenti visite. Non solo, lo stesso Occhionero ormai veniva descritto dai suoi nemici come manutengolo, ricettatore e marito “paziente”.
La morte di Gaetano Meomartino arriva dunque la mattina del 9 aprile 1818 durante una rivista della squadriglia in piazza, proprio dinanzi la casa dei Grimani. Prima i colpi di moschetto, poi la scarica di fucileria. Restano sullo sterrato sette cadaveri crivellati di proiettili: si tratta di Gaetano, Giovanni e Geremia Meomartino, Serafino Viola di Portocannone, Carlo Tosto di Torremaggiore, Domenico di Furia da Panni (Avellino), Tommaso Sanpoli di Pietracatella. Dall’agguato fuggirono trentanove gregari che, nonostante la latitanza, vennero richiamati a Foggia dal generale Amato, comandante della Provincia, affinchè in ossequio al Regio Decreto che ne aveva fatto una squadriglia di armigeri, eleggessero un nuovo capo. Una chiamata che rivelò presto un tranello per sconfiggere definitivamente la banda che, accerchiata nuovamente dalle truppe regolari, lasciò sul campo nove morti. Circa una decina, tra i più destri, riuscirono invece a fuggire in sella ai propri cavalli, altri venti si rifugiarono in una vecchia cava dove precipitarono e trovarono la morte asfissiati poiché i soldati gettarono materiale infiammabile per stanarli senza successo. “Questo miserando epilogo della tragedia in Ururi iniziata – scriveva il Masciotta - sta ad attestare la bassezza dei tempi, e la compassionevole debolezza che voleva parer forza del governo dei Borboni. L'eccidio avvenuto in Ururi non fu seguito da processo. Nessuno, quivi, ebbe torto un capello. Così fini la gesta dei Vardarelli.”

I DOCUMENTI UFFICIALI
Il Sindaco di Ururi spedì al Sottintendente di Larino il seguente rapporto "ad usum Delphini": in opposizione cioè alla realtà degli avvenimenti quale noi abbiamo or ora esposta: "Ururi, 9 aprile 1818" Sig. Sotto - Intendente, "Ieri che si contavano li 8 di questo aprile, essendo giunta la Compagnia del sig. De Martino (sic), dopo di essere stati tutti bene alloggiati, han cominciato a mettersi sossopra, prendendo occasione che l'avena, che doveva somministrarsi per i loro cavalli, era di cattiva qualità, non ostante che esso suddetto de Martino, con sue lettere preventive, che qui si conservano, aveva ordinato che io avessi tenuto pronta detta avena per i suoi cavalli. "Conoscendo dunque che costoro erano qui giunti male intenzionati, ho cercato ogni mezzo di capacitarli coll'essere andato io di persona per il paese questuando orzo e contentarli. Finalmente capacitatili con le mie dolci maniere, jeri sera mi è riuscito mantenere la tranquillità; ma perché nella passata notte non solamente tutti han cercato di maltrattare la cittadinanza, e con domandare spese di vitto fuori dell'ordinano e col toccare la stima di alcune famiglie, cos“ con l'occasione d'essersi qui trovata esistente (sic) la colonna Mobile sotto il comando del signor D. Nicola Campofreda" ( 399 ), questi volendo questa mattina compatire la cittadinanza maltrattata, "venne in altercazione con l'intiera compagnia del suddetto De Martino, il quale, si lui "che i suoi fratelli, avendo cominciato a far fuoco, tanto essi che i loro compagni sia contro della compagnia del suddetto signor Campofreda che contro questa popolazione, quali per non restar vittime del loro furore, si posero tutti alla difesa, formando un fatto d'armi il più strepitoso che mai possa credersi, dentro del quale restarono morti tutti 3 i fratelli de Martino, un tale per nome Serafino Viola, molti altri fuggiti gravemente feriti, ed altri morti, che non ancora mi riuscito di sapere chi siano, riserbandomi di darvi con altra mia più distinto e chiaro rapporto, giacché ora mi trovo nella massima confusione. "Compiacetevi di passarne subito avviso a' legittimi Superiori, affinchè questa povera infelice popolazione non abbia a soffrire qualche sinistro avvenimento, non essendo in menoma parte colpevole di cosa alcuna, compiacendovi ancora farmi sapere se i cadaveri possono seppellirsi o debbono riconoscersi e formarne le debite carte, prevenendovi di ritrovarsene uno ferito, che vi compiacerete ordinarmi se debbo subito costì mandarlo.
Il Sindaco Giovanni Musacchio

Nel Libro parrocchiale dei Defunti è scritto, invece: "Ururi, 9 aprile 1818 "Gaetano de Martino, figlio di Pietro quondam e Donata Iannantuono, del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo, morto ammazzato a colpi di schioppettate, in età sua di anni 40 circa, senza ricevere alcun sagramento, verso le ore 15 di detto giorno. Il suo cadavere si è seppellito nella Congregazione dei morti di questo suddetto Comune.
"Firmato " Pasquale Schiavone Economo Curato

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