venerdì 25 maggio 2012
GLI INVISIBILI - LE NUOVE POLITICHE D'INTEGRAZIONE DELL'UE PER IL POPOLO ROM
Dopo la scorpacciata ideologica della destra e della Lega, l’Italia dovrà fare i conti con i fondi previsti dalla Commissione Europea per l’integrazione sociale, economica, lavorativa e scolastica della popolazione Rom, l’unica minoranza etnica che nel nostro Paese non viene riconosciuta da nessuna legge nazionale.
“L’infiltrazione più antica è quella degli zingari (…) non si tratta però di quei nomadi che in Europa vengono chiamati boemi e tzigani e gitani (…) né quei randagi di origine balcanica che si vedono in giro nel centro e nel settentrione d’Italia (…) che si accampano fuori dalle città e vivono riattando e vendendo minuti arnesi di ferro per usi di cucina (…) gli zingari nostrani detti pure un tempo Gizzi o Egizi denunciano origine levantina e sono indigeni del tutto da secoli. E’ tradizione che fossero certamente accentrati a Jelsi, che sarebbe la loro capitale. Ielsi, nei più vetusti diplomi feudali è detta Gittia e Terra Giptia in quegli del secolo XV. Da Jelsi si diramano poi, man mano, nei paesi tra il Fortore e il Biferno, e questi fiumi oltrepassarono sparpagliandosi nelle adiacenze.”
Giambattista Masciotta “Il Molise dalle origini ai nostri giorni”
Affrontare il tema dell’integrazione delle minoranze in questo Paese ha rappresentato negli ultimi trent’anni un giuoco al massacro. L’Italia che dalla pancia piena e dalla coscienza molle subisce oggi un giro di vite nei numeri dell’occupazione, nei salari e nei diritti, ribadisce spesso con violenza uno stato d’animo distrutto da anni di lotta ideologica contro il diverso, imposto dalla Lega e dalle destra in televisione e nelle aule del Parlamento. Così basta nominare la parola Rom e Zingaro per far riemergere quella specie di dolore o di malessere in ognuno di noi, quasi un fatto ancestrale, che nega la possibilità di poter far interagire e integrare cittadinanze spesso comuni destinate ad incontrarsi e spesso riconoscersi solo nei pressi delle stazioni, nelle strade e nelle piazze di molte città e molto ancor più spesso nelle aule dei tribunali. In questo clima l’Italia dovrà definire una serie di politiche nazionali in favore dei rom, da quando, il 7 aprile 2011, la Commissione Europea ha proposto il quadro europeo per le strategie nazionali di integrazione dei rom, che orienterà le politiche nazionali mobilitando ingenti fondi europei disponibili a sostenere le iniziative di inclusione. Il quadro fa riferimento a quattro aree (accesso all'istruzione, all'occupazione, all'assistenza sanitaria e all'alloggio) e a partire da quest’anno e per ogni anno successivo ogni stato dell'Unione Europea, se vorrà accedere ai fondi europei, dovrà presentare entro il 31 dicembre una convincente strategia nazionale per l'integrazione dei rom.
I NUMERI
Eppure oltre settantamila Rom su centoquarantamila stimati dal Ministero dell’Interno, enti locali e associazioni che operano sul territorio nazionale, risiedono in Italia da circa seicento anni, quando insieme ad albanesi e grecanici fuggirono dall’invasione turca della penisola balcanica e dunque divenuta popolazione endemica e sedentarizzata da tempo. Una presenza costante quella della popolazione romanès che riunita in diverse comunità soprattutto nel centro Italia, è legata da legami di sangue definita rac (rats) che si traduce in “razza” o “stirpe”, intesa come famiglia patriarcale. La rac si identifica, in genere, con le famiglie aventi gli stessi cognomi: De Rosa, Spinelli, Morelli, Guarnieri, Di Rocco, Ciarelli, Spada, Di Silvio, Abbruzzese, Belrlingieri etc. Una comunità che abita da tempo nei quartieri di molti comuni molisani (Campobasso, Termoli, Santa Croce di Magliano, Isernia e Monteroduni), mediamente integrata nelle relative realtà e che ha scambi e rapporti commerciali e famigliari con altre comunità abruzzesi, laziali, pugliesi e campane. Dalle stime fatte i rom, sinti e camminanti presenti in Italia sono complessivamente tra i 130 e i 180mila, pari a circa lo 0,2-0,3% della popolazione italiana, una percentuale che rappresenta una delle più basse d’Europa, se escludiamo il gruppo di Stati dell’Europa orientale e dell’area balcanica (Romania, Bulgaria, Ungheria, Slovacchia, Serbia e Macedonia), in cui vive il 61,5% della popolazione «zingara» d’Europa con percentuali che arrivano al l’11% della popolazione, è la Grecia, tra i paesi dell’Europa occidentale, che registra la maggiore presenza di rom (2% della popolazione), seguita dalla Spagna (1,6%) e dalla Francia (0,5%).
LE POLITICHE NAZIONALI E REGIONALI
A differenza delle non politiche sin ora intraprese dal nostro Paese, oltre alla risoluzione della Commssione Europea, in tempi recenti, si è particolarmente accentuata invece l’attenzione sul tema da parte del Consiglio d’Europa, dell’Organization of Security and Co-operation in Europe (OSCE) nonché delle Nazioni Unite. Un impegno che in Italia piomba come un macigno poiché, a differenza di altre minoranze, infatti, la mancanza di un territorio di riferimento, di una religione e di una lingua comune rendono difficile – se non impossibile – identificare un soggetto quale appartenente al gruppo rom. L’unico strumento per valutare la reale entità della popolazione rom sarebbe l’autoascrizione da parte degli appartenenti alla minoranza, che invece tendono però a mimetizzarsi nelle società di accoglienza per timore di pregiudizi o peggio di discriminazioni. Una presenza comunque che presenta oltre al primo gruppo di fatto endemico, un secondo gruppo costituito da circa 90mila rom balcanici (extracomunitari, due terzi dei quali comunque nati in Italia) arrivati negli anni Novanta in seguito alla disgregazione della ex Jugoslavia e stabilitisi principalmente nel Nord del paese; ed infine un terzo gruppo di rom romeni di migrazione più recente (cittadini europei) concentrato prevalentemente nelle grandi città (Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Genova). Si tratta di una minoranza giovane, considerando che il 60% dei rom presenti in Italia è minorenne, ma solo il 2,81% supera i 60 anni, con un’aspettativa di vita inferiore di dieci anni in media a quella degli altri cittadini europei. Dal punto di vista normativo nazionale, dunque le comunità rom, sinta e camminante essendo sprovviste di un proprio territorio non sono tutelate dalla legge n.482/1999 «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche» che riconosce e tutela dodici minoranze tenendo conto dei criteri etnico, linguistico e storico nonché della localizzazione in un territorio definito. In definitiva il popolo rom in Italia è invisibile e solo le esperienze locali con Comuni e Provincie hanno tentato e tentano una possibile ricucitura soprattutto con quelle comunità che popolano le aree urbane. Di questi quattro criteri, tre appaiono propri anche della minoranza rom, sinta e camminante in quanto: sono presenti in Italia da circa seicento anni (criterio della storicità), hanno un’origine etnica (criterio dell’etnicità), hanno una propria lingua denominata «romanés», riconosciuta dagli organismi internazionali e dai linguisti quale lingua minoritaria (criterio linguistico). Nel testo del disegno di legge era originariamente compresa, tra le minoranze storiche, anche quella zingara, per la quale si prevedevano medesime disposizioni di tutela. L’approfondimento parlamentare fece emergere, però, la difficoltà di applicazione alla popolazione zingara, in quanto gli istituti di tutela previsti da quella legge sono applicabili soltanto a minoranze insediate in territori definiti e non prevedono tutele di carattere personale, tipiche di minoranze prive di una precisa area di appartenenza come rom e sinti. La peculiarità delle minoranze rom, sinte e camminanti, nelle quali si intrecciano più condizioni di vita – stanziali e itineranti – e più condizioni giuridiche – cittadini italiani, stranieri comunitari, stranieri extracomunitari, rifugiati, apolidi – richiede dunque una particolare regolazione giuridica, sebbene ciascuno dei gruppi citati potrebbe avvalersi di norme costituzionali comunitarie e internazionali a propria tutela. Si decise pertanto di stralciare dal testo della l. 482/1999 la menzione della minoranza rom e sinta e di prevedere per essa l’approfondimento in altro specifico provvedimento. L’attuale legislatura conosce quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare che intendono occuparsi delle tematiche rom. L’unico dotato di una certa sistematicità è stato presentato il 31 maggio 2010 da diciassette senatori, e propone una legislazione di massima per le minoranze etniche, linguistiche e nomadi; un altro si occupa sommariamente delle caratteristiche dei campi di sosta e transito per popolazioni nomadi, e gli altri due sono dedicati al problema della tutela della minoranza linguistica rom e sinta. Pertanto, allo stato attuale, nel nostro ordinamento non esiste alcuna norma nazionale che preveda e disciplini l’«inclusione» e il «riconoscimento» delle popolazioni rom nel concetto di «minoranza etnico-linguistica». Anche se il riconoscimento e la tutela delle minoranze linguistiche spettano alla sola legge statale, undici regioni del Centro-nord (Lazio, Lombardia, Toscana, Umbria, Veneto, Marche, Emilia-Romagna, Sardegna, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Liguria) e la provincia autonoma di Trento hanno sopperito a tale lacuna mediante l’approvazione di apposite leggi regionali. La regione Calabria ha inoltre previsto la tutela per la minoranza rom nel nuovo Statuto della regione (art. 2, comma 2, lett. P. Legge regionale statutaria 19 ottobre 2004, n. 25), peraltro non ancora attuato da alcuna legge regionale.
LE CRITICITA’
Da un punto di vista generale, se si registra l’assenza di una specifica legge a carattere nazionale a tutela di questa minoranza, si rileva anche una carenza nel coordinamento a livello nazionale che coinvolga i diversi livelli di governance del problema. Lo stato di emergenza è costato negli ultimi tre anni 75 milioni di euro e, a conti fatti, l'Unione Europea nel quinquennio 2006-2011 ha erogato in favore dell'Italia circa 40 milioni di euro destinati a politiche in favore delle comunità rom e sinte. Tale flusso incontrollato di denaro è stato però convogliato verso la costruzione e la gestione di luoghi di esclusione sociale e di discriminazione quali sono i "campi nomadi" con il risultato di produrre sperpero di denaro pubblico e gravi violazioni dei diritti umani. Le richieste essenziali da parte delle associazioni che raccolgono la comunità romanès e sinta riguardano l’elaborazione di politiche abitative pragmatiche e non discriminatorie, un approccio interculturale e non esclusivo che non si muova più nell'alveo dell'emergenza, l'elaborazione di politiche sociali in favore dei rom basate su dati scientifici ed infine una partecipazione attiva dei rom e di una metodologia basata su monitoraggi efficaci e solidi.
L’IMPEGNO DEL GOVERNO
Una richiesta che ha trovato asilo da parte del Ministro alla Cooperazione Andrea Riccardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio) ''Un mondo che non sa costruire il futuro nell'inclusione è destinato a fallire''. Con queste parole il Ministro è intervenuto nella Sala della Lupa di Montecitorio il 29 marzo scorso al convegno ''Dall'esclusione all'inclusione - Strategia europea e azione italiana sui Rom''. ''Dobbiamo chiederci - ha aggiunto il ministro - se è accettabile che il nostro continente ospiti ancora così vaste aree di ingiustizia, di segregazione, quelle dei Rom, il popolo più discriminato nel nostro continente''. Riccardi ha inoltre sostenuto che ''è ora di intraprendere azioni concrete. E' ora di includere, garantire l'inclusione nella più vasta comunità nazionale, ed assicurare un miglioramento duraturo delle loro condizioni di vita. Spesso - ha detto Riccardi - i loro campi sono luoghi della vergogna del nostro Paese. Trovare soluzione ai problemi del popolo Rom andrà a vantaggio di tutta intera la nostra societa'''. Per Riccardi occorre dunque ''spezzare il circolo vizioso di povertà, risultati scolastici insoddisfacenti, situazione sanitaria e alloggiativa carente, emarginazione sociale''. Quest'opera, ha spiegato il ministro Riccardi - dovrà andare di pari passo con ''il coinvolgimento delle comunità rom nei processi decisionali nazionali e locali: di tratta di responsabilizzare i Rom, anche attraverso una sensibilizzazione circa i loro diritti e doveri, in ordine al loro stesso sviluppo sociale. Che cosa diremo - ha chiesto Riccardi, concludendo il suo intervento - alle generazioni presenti e future, se non riusciremo ad integrare poche migliaia di Rom, di cui la metà minori?''. CONCLUSIONI
E’ inutile sottolineare che i buoni propositi del Ministro sono stati subito subissati dagli insulti di quotidiani come Il Giornale e Libero che definendo il ministro “cattocomunista”, hanno nuovamente acceso il fuoco dell’odio razziale, chiedendo in diversi articoli le dimissioni dello stesso Riccardi. Per il popolo romanès, dunque, il genocidio continua: era il 1483 quando la Serenissima Repubblica di Venezia emana il primo bando italiano contro i rom, duecento anni dopo il Ducato di Milano autorizzava ogni cittadino “d’ammazzarli impune e levar loro ogni sorta di robbe, bestiami e denari che gli trovasse…” , nella seconda guerra mondiale i nazisti ne trucidarono oltre un milione, senza dimenticare gli eccidi compiuti durante la guerra civile in Jugoslavia. La Shoah degli zingari si chiama Porrajimos (forma sostantiva del verbo porav = divorare). Dopo la guerra le autorità tedesche negarono i risarcimenti elargiti alle vittime dell’Olocausto giustificandosi che i Rom e i Sinti furono perseguitati non per motivi razziali ma in quanto asociali e criminali. Il mondo muta velocemente, le società si evolvono ma i sentimenti di avversione verso i romanès purtroppo restano.
MAURIZIO ORIUNNO
copyright Il Bene Comune maggio 2012
lunedì 26 marzo 2012
LE MOTIVAZIONI DELLA BOCCIATURA DELLE LEGGE FINANZIARIA DEL MOLISE DA PARTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
La legge della Regione Molise 26 gennaio 2012, n. 2, "Legge Finanziaria Regionale 2012", presenta profili di illegittimità costituzionale relativamente all'art. 3, commi 1 e 2, all'art. 18, commi 1 e 2, all'art. 67, all'art. 68, comma 1, lett. a), all'art. 69 e all'art. 79. 1) l'art. 18, commi 1 e 2, consente l'utilizzo del mezzo proprio e relativo rimborso spese al personale con qualifica dirigenziale titolare di incarichi apicali, ai responsabili di programmi collegati all'utilizzo di fondi comunitari e nazionali, ai funzionari e dirigenti incaricati dell'esercizio di funzioni ispettive o di controllo e di patrocinio legale in occasione delle trasferte di servizio, in caso di impossibilità di utilizzo di idoneo mezzo dell'Amministrazione o di altro mezzo pubblico di trasporto. Tale disposizione regionale contrasta con l'art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122/2010, concernente la riduzione dei costi degli apparati amministrativi, in base al quale per il personale contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165/2001, compreso il personale di cui trattasi, non trovano applicazione le norme relative al trattamento economico di missione contenute nell'art. 15 della legge n. 836/73 (l'autorizzazione all'uso del mezzo proprio per il personale che svolge funzioni ispettive) e nell' art. 8 della legge n. 417/78 (determinazione dell'indennità chilometrica). Pertanto, la norma regionale, nella parte in cui deroga ai principi generali del citato d.lgs. n. 165/2001 determina la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, nonché la violazione dell'articolo 117, comma 2, lettera l) della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell'ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile. Inoltre, la norma regionale de quo, nella parte in cui deroga ai principi di stabilizzazione della finanza pubblica determina la violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione in materia di coordinamento della finanza pubblica. 2) La disposizione contenuta nell'articolo 79 prevede che la gestione del servizio idrico integrato sia affidata all'Azienda speciale regionale Molise Acque, ente di diritto pubblico, la cui natura giuridica non può essere modificata. In proposito occorre premettere che, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 26/2011) è <
sabato 24 marzo 2012
L'ADELCHI VA ALLA GUERRA
Intervista all’autore Adelchi Battista in occasione dell’uscita del suo primo romanzo “Io sono la guerra”, edito da Rizzoli. La caduta del fascismo, l’invasione degli Alleati in Sicilia, la controffensiva dell’esercito sovietico, le paure degli ufficiali tedeschi: tutto comincia alla fine del giugno 1943.
I destini della seconda guerra mondiale raccontati percorrendo un network di personaggi e di comprimari che parteciparono da vinti e da vincitori, spesso soltanto da vittime, ai fatti del luglio 1943. Il primo romanzo di Adelchi Battista “Io sono la guerra” supera la retorica del romanzo storico e contemporaneo per gettare il lettore in una rete di informazioni, date, numeri ma anche di anime dei personaggi, senza avere nessun altro senso, dato che non esiste la fine classica del romanzo, che quello di raccontare con efficacia e ritmo tutto quello che determinò nei giorni a seguire quel lasso di tempo. Edito da Rizzoli “Io sono la guerra” è il primo romanzo di Battista che dopo le sue belle esperienze in televisione e radio (Rai, Radio 24, Radio Italia Nework) come autore e nel teatro, è approdato lo scorso anno nella storica casa editrice milanese per pubblicare dopo un gigantesco lavoro di documentazione e rielaborazione di informazioni l’idea di un romanzo storico vero ma non cronachistico. Parlare con Adelchi Battista è facile: sia perché abbiamo condiviso nel post adolescenza medesimi luoghi ed esperienze ma anche perché la sua disponibilità ed il suo entusiasmo sono sempre stati totali. Lo incontriamo nella nostra redazione che scruta con interesse, non prima di una bella chiacchierata privata sulla nostra città sognata ma mai realizzata, dinanzi alla nostra bottiglia in vetro colma di acqua naturale e che naturalmente deve restare pubblica.
Parafrasando un autore brasiliano che io amo molto come Jorge Amado, Adelchi Battista non è stanco di guerra?
“Non ancora, è complicato comunque gestire questo genere di informazioni e di tesserne certe trame ma ho intenzione di concludere questo lavoro che vuole chiudere così la sezione temporale inquadrata nel mio libro ma anche quella successiva. “Io sono la guerra” si conclude con la caduta di Mussolini avvenuta il 25 luglio del 1943, da circa un anno e mezzo sto lavorando per una seconda parte che guarderà ai quarantacinque giorni del governo Badoglio, l’armistizio, la Liberazione fino all’uccisione di Mussolini avvenuta il 12 settembre. Solo dopo questa seconda parte che non ha ancora un titolo, potrò dire di aver finito con la guerra.”
Circa sessanta personaggi caratterizzano il tuo lavoro. Da Churchill a Stalin, da Hitler a Mussolini ma anche prefetti, gerarchi, semplici soldati e ufficiali, fino a Lucky Luciano ed un giovane avvocato di nome Michele Sindona, entrano con i loro destini, le loro decisioni, i loro dubbi dentro la storia della Guerra Mondiale e non ne escono più.
“E un approccio un po’ particolare, nel senso che non esiste il concetto classico del romanzo storico. Nei romanzi storici solitamente troviamo inserti di fiction pura all’interno di sfondi reali, io voluto condurre un’operazione opposta cioè ho voluto rendere fatti assolutamente veri, chiaramente in alcuni casi un po’ arrangiati, ma senza l’ausilio della fiction, cioè senza un personaggio, un gruppo, una famiglia. In questo caso è stata la Storia stessa che si è trasformata in un romanzo. Per fare ciò ho dovuto però tenere conto di tante interazioni. Noi crediamo che la Storia sia fatta dai grandi capi di stato, in realtà io credo che il ero orizzonte degli eventi sia determinato da una serie di quadri intermedi che sono le seconde gerarchie del fascismo, i generali di Hitler, gli ufficiali ed i soldati americani, italiani, russi e così via.”
E’ stato difficile per te reperire tutte queste fonti?
“Ci sono voluti ben quattro anni di lavoro sugli archivi di mezzo mondo che, però devo dire, sono stati abbastanza facili grazie alla tecnologia. Oggi abbiamo possibilità che, per gli storici anche solo di soli cinque – dieci anni fa, non esistevano, a meno che non fossero ricchissimi per potersi permettere un viaggio per visitare gli archivi oggi a Londra piuttosto che a Washington. Oggi tutto questo materiale è in rete: i governi occidentali ma anche quello russo, giapponese e cinese hanno fatto un buon lavoro. Quello italiano invece è indietro sotto questo punto di vista: gli archivi italiani devono essere visitati ancora a piedi, solo adesso si comincia ad intraprendere qualche passo. Al contrario delle biblioteche: un gran lavoro è stato fatto proprio a Campobasso dagli amici della Bibliomediateca che mi hanno reperito dei documenti di difficile accesso. Tutto ciò permette una visione molto più ampia, molto più analitica e precisa dei singoli avvenimenti.”
Hai inquadrato il tuo romanzo in un mese ben preciso. Che tipo di scelta hai compiuto?
“In quel mese la guerra subisce una svolta abbastanza radicale cambiando segno. In generale noi italiani abbiamo sempre avuto un problema con la guerra, ovvero iniziare con uno e finire con l’altro, per motivi non sempre ben compresi. Nel mio caso all’interno di questo periodo sono accadute cose, secondo me, che ci hanno fatto capire bene in che razza di guaio ci eravamo cacciati. La popolazione lo ha capito abbastanza rapidamente poiché è quella che subisce sulla propria pelle gli errori dei potenti ma è impotente, poi lo hanno capito le sfere intermedie come i prefetti, i gerarchi e per ultimo lo capisce anche il Re. Quando quest’ultimo si sveglia si prendono i provvedimenti nonostante però i disastri siano già molto avanti. In quel mese dunque c’è la comprensione del disastro, poi c’è l’invasione del territorio da parte degli alleati ma c’è anche l’inversione di tendenza della guerra in Russia con la controffensiva dell’esercito sovietico che da quale momento arriverà fino a Berlino senza mai fermarsi. E’ il momento in cui la guerra subisce una svolta e credo che questo momento doveva essere scritto nella maniera più analitica possibile per descrivere come avvengono certi mutamenti in guerra. In realtà quando si scrive un romanzo storico si vuole parlare di oggi non del passato quindi è il mutamento di governo che mi interessava più di altre cose. Ho cercato tante analogie (la caduta di Berlusconi ndr), senza cadere nella trappola, però le ho cercate e secondo me ne ho trovate tante.”
Sotto l’aspetto narrativo e storico trovo molto interessante, riferendomi alla parte relativa allo sbarco degli angloamericani in Sicilia, quando entra in campo accanto al boss Lucky Luciano, un giovane avvocato di Messina di nome Michele Sindona, nell’operazione Avalanche.
“E’ un fatto storico anche se tanti commentatori non hanno mai voluto seguire questa traccia. E’ un fatto che l’amministrazione americana abbia cercato settori mafiosi per facilitare il proprio ingresso nell’isola. Tant’è che hanno chiesto, secondo quando poi si è accertato, a Lucky Luciano che era in galera, scontando diversi ostacoli, un elenco di nomi che potessero in qualche modo facilitare l’avanzata dell’esercito. Luciano ottenne di scontare la pena in Sicilia, tutti quei nomi divennero in seguito sindaci della quasi totalità dei comuni siciliani. Penso a Villalba con Calogero Vizzini, penso a Musumeni con Don Giuseppe Giancorusso e così via, dando spazio e cittadinanza al Movimento Indipendentista Siciliano che, insieme a Salvatore Giuliano ha portato alla strage di Portella delle Ginestre. Rispetto a Sindona, allora giovane avvocato messinese che a soli ventitre anni era a capo dell’ufficio delle imposte della città sullo Stretto, nell’episodio viene istruito proprio da Lucky Luciano, in effetti non ci sono prove dirette sulla sua presenza negli States) sulla ricerca dei nomi di cui sopra.”
Nella tua vita di autore hai lavorato per lungo tempo nel mondo teatrale, musicale e radiofonico. Cos’altro hai in riserbo, oltre alla seconda parte di “Io sono la guerra”?
“Non dovrei dirlo ma mi pare di capire che nel 2012 ci sarà anche la produzione di un film con una mia sceneggiatura. Non voglio anticipare ancora nulla poiché siamo ancora in una fase embrionale del progetto che però ha ricevuto interessi molto ma molto particolari che se dovessero andare in porto, suppongo potrà far parlare di se.”
Copyright Il Bene Comune
sabato 10 marzo 2012
Gaetano Meomartino e il Mucchio Selvaggio in Molise
Transitando lungo l’unica arteria che congiunge il Molise centrale alla costa è facile fantasticare l’esistenza di feroci pellirosse e sanguinari banditi nascosti lungo i crinali di certe colline, identiche a quelle immortalate in tante pellicole di scalcagnati spaghetti western negli anni ‘70. Guardando a quanto accaduto tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 nelle campagne della Capitanata che si estendevano tra il nord della Puglia ed il Basso Molise, il paragone esiste, eccome.
Come nel Far West sporco, puzzolente, povero e feroce di Sergio Leone, nella nostra storia locale non meno sporca, puzzolente, povera e feroce di quella narrata dal regista di “Per un pugno di dollari”, sono esistiti personaggi dalle personalità complesse, veri e propri antieroi, che hanno vissuto, ucciso e fatto uccidere senza troppi scrupoli. La storia di Gaetano Meomartino, capo di una compagnia di mercenari a cavallo, è una di queste.
Personaggio inquieto, una sorta di primula rossa che ha saputo navigare per quasi venti anni tra l’occupazione francese del Regno di Napoli, la carboneria, la corte borbonica a Palermo e i sanfedisti, venendo trucidato dalle Regie Milizie del Molise residenti ad Ururi (comune arbreshe molisano), insieme ai suoi fratelli e alla sua banda di contractors ante litteram. Non un semplice brigante, dunque.
“Fra i suoi occulti protettori vi erano cittadini d'ogni classe sociale, funzionari governativi, magistrati perfino; e quindi, o per spirito settario, o per tema, o per interesse, o per altri ignobili motivi, una fitta rete d'informatori favoriva il bandito, tutti in gara a prevenirlo dei progetti e delle disposizioni dell'Autorità costituita.” Così scriveva lo storico Giambattista Masciotta nel quarto volume dell’opera “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” nel 1952, raccontando le gesta del Meomartino.
Lo storico racconta con dovizia di particolari tutta la vicenda che ebbe addirittura l’opportunità di essere immortalata nel 1963 nel film “L’ultima carica”, per la regia di Leopoldo Savona. Ovviamente la trama è lontanissima da fatti realmente accaduti e raccontati dal Masciotta. Il soggetto narra di una storia d’amore nata tra il brigante - patriota Rocco Vardarelli (Tony Russell) e Claudia (Haya Harareet), una bella aristocratica, ai tempi della dominazione francese. Nel cast anche un giovanissimo Oreste Lionello. Tra gli sceneggiatori anche Bruno Corbucci.
Ma chi era Gaetano Meomartino e perché la sua banda era chiamata dei Vardarelli? Nato il 13 gennaio 1780 a Celenza Valfortore, viveva a Castelnuovo delle Daunia quando fu chiamato nelle fila dell’esercito dalle circoscrizioni murattiste. “Giovane di torbido animo, manesco, indisciplinato, anelante ad elevarsi in condizione sociale per desiderio di ozii beati” scriveva Masciotta, Meomeartino fuggì in Sicilia come disertore ben sapendo che la Corte borbonica accoglieva tutti i “profughi” del continente, senza spesso indagarne le origini. Un fuga che durò qualche anno prima di dover fuggire per evitare la galera. Tornato nella sua terra d’origine si mise alla testa di una numerosa banda di malviventi che, secondo le cronache, montava buoni cavalli ed era fornita delle migliori armi in circolazione. Meomartino era smanioso di dare fastidio all’occupazione francese, convinto della prossima restaurazione dei Borboni sulla terraferma. Da Napoli milizie scelte furono inviate per affrontare la banda dei Vardarelli ma la banda “si sciolse misteriosamente come misteriosamente si era formata”, e Gaetano tornò nuovamente in Sicilia dove i suoi delitti furono considerati ottimi requisiti nei confronti dell’usurpatore francese e dove venne nominato Sergente del Corpo delle Guardie.
Arrivò la restaurazione borbonica che non tenne fede alla promessa di una riforma agraria e Meomartino nello stesso anno (era il 1815) disertò nuovamente per mettersi a capo di una banda ancor più numerosa, insieme ai fratelli Giovanni e Geremia. I Vardarelli contavano cinquanta uomini a cavallo: in breve tempo, scrive ancora il Masciotta “acquistò funesta rinomanza di coraggio temerario e di potenza indomabile nell'intera Capitanata. Era invocato dai poveri contro gli abusi e le prepotenze dei ricchi: ed egli accorreva prontamente e faceva vendetta, riservando a sè ed ai suoi la parte leonina delle spoglie.” Fu così che il nome della banda divenne popolare. Con la base situata nell’alta valle del Fortore, Meomartino faceva partire rapide incursioni in Capitanata, Molise, Irpinia, Terra di Bari e Terra d’Otranto, giungendo ad accordarsi politicamente anche con il prete brigante Don Ciro Annicchiarico.
Il nome della banda derivava dal mestiere del padre dei Meomartino che era un vardaro, un costruttore di basti e selle speciali per asini e muli; i figli del "vardaro" erano ovviamente i "vardarielli". Nonostante tutti gli sforzi il governo borbonico non riuscì a fermare la banda che conquistava sempre più le simpatie delle masse rurali ma anche quelli della Carboneria: secondo il Masciotta Meomartino infatti “rivestiva un grado nella formidabile setta; onde riusciva a sapere, in precedenza all'esecuzione, gli ordini spiccati contro di lui, e perfino le misure che erano allo studio o in via di maturazione.”
Pur di tenere buona una provincia sterminata e ricca per le sue magioni, il governo borbonico nel 1817 tratta con la banda, concedendo il perdono. E’ il ministro di polizia, il marchese Luigi de Medici, a trasformare la banda in squadriglia autonoma di armigeri, sottoposta agli ordini dei Generali comandanti delle provincie, assegnando lo stipendio mensile di 30 ducati ai militi, di 45 ducati a ciascuno dei germani del Capo, e di 90 ducati a Gaetano Meomartino. Una sorta di contractors ante litteram, una pratica comune nel passato (basti pensare a come la corona inglese si era avvalsa dei corsari nella lotta contro gli spagnoli), che in breve tempo ripulirono la Capitana da tutti i malviventi. Questa posizione controversa era vissuta in maniera guardinga dalla banda che comprendeva la stranezza della propria situazione giuridica e morale. Correva voce, inoltre, che l’onta della nomina sarebbe stata presto lavata con il piombo e non con il denaro promesso. Malgrado ciò, scrive Masciotta “Il Governo centrale… non riusciva, peraltro, a trovare un ceffo capace di tentare una minima impresa contro il Meomartino e i suoi.”
Il pretesto si presenta quando i Vardarelli rifiutano di essere trasferiti a Sora per sedare una rivolta dei militari all’interno della fortezza di Gaeta. Essi non volevano, infatti, allontanarsi dalle loro terre. Il re, però, considera il rifiuto come un atto di diserzione e decide la fine della banda. Il generale Church riceve il comando delle forze per la repressione del brigantaggio e si trasferisce a Barletta, dove insedia il suo quartier generale. La capitolazione della banda arrivò per puro caso. Meomartino spesso si fermava ad Ururi per fare rifornimenti, cittadina che da venti anni era scossa da una faida tra due importanti famiglie: gli Occhionero ed i Grimani. Una faida nata durante l’occupazione francese che vedeva protagonista il comandante delle truppe francesi di passaggio che, ospite nella casa di Nicola Grimani, aveva superato il limite imposto dalla convenzioni locali riguardo alla cortesie nei confronti della moglie dell’Occhionero, dirimpettaio del Grimani. Da qui nacque un alterco tra il comandante francese e lo stesso Occhionero che finì schiaffeggiato. “Nell'animo dell'oltraggiato – scriveva il Masciotta - sorse ed ingrossò poi il sospetto che il Grimani avesse suggerita la visita al manesco comandante, donde nacque un livore che per oltre mezzo secolo perdurò, alimentato scambievolmente e tenuto desto con aggressioni, incendi, abigeati, calunnie, appostamenti, assassinii, e tutto ciò che le passioni più cieche possono ideare ed il braccio eseguire.” Come nel Mucchio Selvaggio le incursioni dei Meomartino si fecero sempre più truculente: nel corso di questa rivalità i Vardarelli, alleato con Emanuele Occhionero poiché Gaetano aveva battezzato la figlia Giacinta, avevano ucciso trecento suini nella masseria dei Grimani; una seconda volta ottanta vacche; una terza volta avevano dato fuoco ai campi coltivati e, l’ultima, avevano violentato tutte le donne di casa dinanzi agli uomini legati. Episodi che reclamavano vendetta: i Grimani allertarono dalla vicina Portocannone il distaccamento delle Regie Milizie del Molise al comando del tenente Nicola Campofreda. Meomartino, del resto, era diventato una presenza difficile da gestire anche per lo stesso Occhionero che era infastidito dalle sue frequenti visite. Non solo, lo stesso Occhionero ormai veniva descritto dai suoi nemici come manutengolo, ricettatore e marito “paziente”.
La morte di Gaetano Meomartino arriva dunque la mattina del 9 aprile 1818 durante una rivista della squadriglia in piazza, proprio dinanzi la casa dei Grimani. Prima i colpi di moschetto, poi la scarica di fucileria. Restano sullo sterrato sette cadaveri crivellati di proiettili: si tratta di Gaetano, Giovanni e Geremia Meomartino, Serafino Viola di Portocannone, Carlo Tosto di Torremaggiore, Domenico di Furia da Panni (Avellino), Tommaso Sanpoli di Pietracatella. Dall’agguato fuggirono trentanove gregari che, nonostante la latitanza, vennero richiamati a Foggia dal generale Amato, comandante della Provincia, affinchè in ossequio al Regio Decreto che ne aveva fatto una squadriglia di armigeri, eleggessero un nuovo capo. Una chiamata che rivelò presto un tranello per sconfiggere definitivamente la banda che, accerchiata nuovamente dalle truppe regolari, lasciò sul campo nove morti. Circa una decina, tra i più destri, riuscirono invece a fuggire in sella ai propri cavalli, altri venti si rifugiarono in una vecchia cava dove precipitarono e trovarono la morte asfissiati poiché i soldati gettarono materiale infiammabile per stanarli senza successo. “Questo miserando epilogo della tragedia in Ururi iniziata – scriveva il Masciotta - sta ad attestare la bassezza dei tempi, e la compassionevole debolezza che voleva parer forza del governo dei Borboni. L'eccidio avvenuto in Ururi non fu seguito da processo. Nessuno, quivi, ebbe torto un capello. Così fini la gesta dei Vardarelli.”
I DOCUMENTI UFFICIALI
Il Sindaco di Ururi spedì al Sottintendente di Larino il seguente rapporto "ad usum Delphini": in opposizione cioè alla realtà degli avvenimenti quale noi abbiamo or ora esposta: "Ururi, 9 aprile 1818" Sig. Sotto - Intendente, "Ieri che si contavano li 8 di questo aprile, essendo giunta la Compagnia del sig. De Martino (sic), dopo di essere stati tutti bene alloggiati, han cominciato a mettersi sossopra, prendendo occasione che l'avena, che doveva somministrarsi per i loro cavalli, era di cattiva qualità, non ostante che esso suddetto de Martino, con sue lettere preventive, che qui si conservano, aveva ordinato che io avessi tenuto pronta detta avena per i suoi cavalli. "Conoscendo dunque che costoro erano qui giunti male intenzionati, ho cercato ogni mezzo di capacitarli coll'essere andato io di persona per il paese questuando orzo e contentarli. Finalmente capacitatili con le mie dolci maniere, jeri sera mi è riuscito mantenere la tranquillità; ma perché nella passata notte non solamente tutti han cercato di maltrattare la cittadinanza, e con domandare spese di vitto fuori dell'ordinano e col toccare la stima di alcune famiglie, cos“ con l'occasione d'essersi qui trovata esistente (sic) la colonna Mobile sotto il comando del signor D. Nicola Campofreda" ( 399 ), questi volendo questa mattina compatire la cittadinanza maltrattata, "venne in altercazione con l'intiera compagnia del suddetto De Martino, il quale, si lui "che i suoi fratelli, avendo cominciato a far fuoco, tanto essi che i loro compagni sia contro della compagnia del suddetto signor Campofreda che contro questa popolazione, quali per non restar vittime del loro furore, si posero tutti alla difesa, formando un fatto d'armi il più strepitoso che mai possa credersi, dentro del quale restarono morti tutti 3 i fratelli de Martino, un tale per nome Serafino Viola, molti altri fuggiti gravemente feriti, ed altri morti, che non ancora mi riuscito di sapere chi siano, riserbandomi di darvi con altra mia più distinto e chiaro rapporto, giacché ora mi trovo nella massima confusione. "Compiacetevi di passarne subito avviso a' legittimi Superiori, affinchè questa povera infelice popolazione non abbia a soffrire qualche sinistro avvenimento, non essendo in menoma parte colpevole di cosa alcuna, compiacendovi ancora farmi sapere se i cadaveri possono seppellirsi o debbono riconoscersi e formarne le debite carte, prevenendovi di ritrovarsene uno ferito, che vi compiacerete ordinarmi se debbo subito costì mandarlo.
Il Sindaco Giovanni Musacchio
Nel Libro parrocchiale dei Defunti è scritto, invece: "Ururi, 9 aprile 1818 "Gaetano de Martino, figlio di Pietro quondam e Donata Iannantuono, del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo, morto ammazzato a colpi di schioppettate, in età sua di anni 40 circa, senza ricevere alcun sagramento, verso le ore 15 di detto giorno. Il suo cadavere si è seppellito nella Congregazione dei morti di questo suddetto Comune.
"Firmato " Pasquale Schiavone Economo Curato
copyright Il Bene Comune
martedì 21 febbraio 2012
La Casa de pedra di Tandil
La storia di Domenico Conti da Civitanova del Sannio e della sua Movezida, la cava di granito che ha innalzato Buenos Aires
La storia del Molise gravita spesso intorno al peregrinare dei suoi cittadini iniziato nella metà dell’800 e mai concluso, dettato dalle più diverse esigenze o spesso dalla dura necessità. Tracce anzi prove vere possono trovarsi in famosi personaggi del mondo della politica, dell’economia, dell’arte del continente americano, così come nella vecchia Europa e nella lontana Australia. Ben più difficile invece ritrovare elementi concreti, architetture reali, provenienti dal Molise se non i tanti reperti di epoche sannitiche relegate in alcuni musei.
Partì da Civitanova del Sannio, in provincia di Isernia, Domenico Conti per approdare in Argentina dove comprò un terreno a Tandil per edificare la sua “casa de pedra” nel 1875. La Casa de piedra venne edificata come perfetta replica della casa paterna di Conti a Civitanova del Sannio, tanto simile sia per caratteristiche ambientali sia per la presenza di ottimo granito, al territorio di Tandil.
La storia di Conti si colloca perfettamente nella storia del paese latino americano, dove confluirono nella seconda metà dell’800 diverse comunità di emigrati italiani, spagnoli, francesi, tedeschi e russi che, spesso, introdussero dai paesi di provenienza importanti elementi architettonici nelle città e nei villaggi sparsi lungo le ricche terre d’oltreoceano e che ancora oggi sono presenti nel variegato panorama argentino.
Ma la storia di Tandil è legata saldamente alla storia di Domenico Conti perché la “casa de piedra” era attigua alla “Movezida”, una stabilimento di estrazione di pietra di proprietà dello stesso Conti, che contava circa sessanta cave e che forniva, secondo le cronache e i rapporti scientifici, materiale unico per naturalezza e durezza, tanto da divenire l’icona della città ed essere definita scientificamente “la piedra movediza”.
Esteriormente la costruzione presenta blocchi di granito a facciavista che esaltano la sua qualità, la pianta della casa è rettangolare e presenta una serie aperture allineate in funzione della percezione del paesaggio circostante, al suo interno un magazzino per gli alimenti, un officina meccanica, l’infermeria, il telegrafo (il primo di Tandil), oltre a tutti gli spazi che servivano per dirigere i cantieri de “La Movezida”. Ma restano ancora intatti i silos, i nastri trasportatori, l’impianto di frantumazione ed altri elementi per l'estrazione e la lavorazione della pietra, realizzati e progettati nel 1920 dallo stesso Domenico Conti.
Elementi di archeologia industriale che rappresentano una testimonianza unica delle forme di sfruttamento della cava e della sua produzione nella regione all'inizio del secolo scorso. Elementi che hanno fornito l'occupazione principale e sono considerati tutt’ora fonte di vita di questa città.
Le profonde e continue trasformazioni che interessano le tecnologie utilizzate nel settore minerario, hanno fatto di questa attività un prezioso patrimonio storico e culturale che oggi viene apprezzato da turisti e visitatori provenienti da tutto il mondo nonché considerato patrimonio protetto sia in Argentina che in Italia.
Grazie all’impegno di Magdalena Conti, nipote di Domenico Conti ed ex assessore alla cultura di Tandil nonché specialista in conservazione dei Beni patrimoniali, è stato possibile redigere nel 1995 il progetto di ecomuseo da parte dell’architetto Adriana Ten Hoeve, dichiarando la dimora “patrimonio storico, culturale e naturale” della città che ha dato i natali, tra l’altro, al noto scrittore Osvaldo Soriano. Ma la vera sorpresa accade circa tre anni fa quando, grazie all’impegno del Circolo Molisano di Tandil e della stessa Conti, la dimora di Tandil è stata dichiarata dalla Giunta Regionale del Molise come bene di interesse patrimoniale, storico e culturale. Un riconoscimento che premia la storia di un emigrante per certi versi “minore”, lontano dalla retorica che spesso si vuole costruire intorno al Molise fuori dal Molise, che grazie alla sua intuizione ma anche alla sua manualità assorbita sin da bambino maneggiando il rude granito, ha contribuito ad innalzare la Buenos Aires che oggi conosciamo.
copyright Il Bene Comune
mercoledì 15 febbraio 2012
L'AUDITORIUM DEI SOGNI: INTERVISTA A DOMENICO IANNACONE
Il Molise bonario e pasticcione dei nostri amministratori è riemerso nuovamente dopo il grande successo ottenuto dalla puntata di Presa Diretta del 12 febbraio scorso, programma ideato da Riccardo Iacona e Domenico Iannacone per Rai Tre, che ha dedicato alle vicende legate alla costruzione del nuovo auditorium di Isernia un’interessante inchiesta del giornalista molisano.
Vicende che, in qualche modo, si potrebbero ricollegare alle ormai famose dichiarazioni di un altro amministratore molisano, l’ex sindaco di Guardialfiera Remo Grande che, intervistato da Report, sulla fase di ricostruzione del post sisma del 2002, ammetteva facendosene vanto di aver dirottato su centinaia di concittadini 20 mila euro a testa per la ristrutturazione di case danneggiate dal terremoto anche se il terremoto non aveva procurato danno alcuno. Nulla di penalmente rilevante, è chiaro. La regola però è semplice: se sono in ballo soldi pubblici dunque occorre approfittare anche perché la vita per i sindaci è diventata sempre più dura per la mancanza di investimenti da parte dello Stato. Si chiami terremoto, si chiami alluvione, si chiamino celebrazioni per l’Unità d’Italia: se c’è da attingere non bisogna farsi scrupoli anche per costruire un auditorium da tremila posti in una città da ventiduemila abitanti dagli scarsi consumi culturali. Abbiamo anticipato insieme a Domenico Iannacone, giornalista molisano e curatore dell’inchiesta, i temi del servizio giornalistico, trovando ampia disponibilità da parte sua e grande interesse per centinaia di utenti della rete che hanno potuto seguire l’intervista sul canale de Il Bene Comune Tv.
Con “Presa Diretta” torni a parlare del tuo Molise e precisamente della vicenda legata alla costruzione dell’auditorium di Isernia. Quali sono le novità sostanziali della tua inchiesta rispetto a quanto è stato scritto sinora?
“Innanzitutto il parere dell’Autorità di vigilanza del 28 novembre scorso che afferma che la gara d’appalto non è stata regolare. Di conseguenza si aprono punti oscuri dinanzi a questa vicenda che è stata dispendiosa per le casse dello Stato. Ma si apre un problema di carattere politico perché costruire una struttura del genere ad Isernia è una scelta che politicamente va ad intaccare le vicende di sviluppo di una città. Nell’inchiesta c’è una comparazione interessante tra quella che potrebbe essere l’utilizzo di un’opera di quel tipo e quello relativo all’utilizzo di alcune strutture come il museo del paleolitico che è in sospeso da circa trent’anni. Un problema gravissimo per certi aspetti, sottolineato dalla parole di Emilio Izzo che è uno dei responsabili della comunicazione della Sovraintendenza ai Beni Culturali che afferma la l’importanza e la priorità di quel ritrovamento, definendolo una sorta di miniera d’oro, un’attrattiva incredibile per l’intero territorio. Io sono molisano ed ho un problema anche di ignoranza rispetto a questa vicenda: non avevo mai visto la grande quantità di ritrovamenti presenti ad Isernia e sono rimasto molto colpito. Da giornalista che vive a Roma, voglio portarci mia figlia…”
Hai parlato di implicazioni politiche, di che si tratta?
“Il sindaco Melogli si è molto incavolato. Sono venuto nel luglio scorso cercando di capire quello che era accaduto. Ci sono tornato alla fine di dicembre, dopo quella che per certi aspetti è stata una pseudo inaugurazione, poiché non sono stati rispettati i tempi di consegna, hanno cercato di imbastire un piccola mostra. Dunque il problema politico è che si spendono soldi pubblici in una regione che ha già tantissimi problemi e si spendono in maniera banale perché fare grandi opere di quel tipo non serve a nessuno.”
Però queste opere sono state inserite all’interno del programma più vasto relativo ai festeggiamenti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia…
“Mi sembra una grande farsa. Perché inserire un’opera di quel tipo? Qual è il valore e qual è la richiesta di quel tipo di opera in una città come Isernia che è una città di ventiduemila abitanti. E’ chiaro che c’è un problema di tipo politico perché quell’opera è stata finanziata dall’ultimo governo di centrosinistra. All’epoca il sindaco Melogli si è recato a Roma insieme all’ex assessore Castiello portando il progetto alla segreteria dell’allora ministro Antonio Di Pietro. E’ dunque un problema generale: significa che lo Stato è una mucca da mungere e che appena c’è l’occasione di cavalcare cose di questo tipo c’è sempre tempo tempo. “
L’aumento sconsiderato dei costi relativi alla costruzione dell’opera probabilmente non sarebbe stato neanche immaginabile.
“In effetti l’Autorità di vigilanza afferma proprio questo. Dice che praticamente la gara non stata regolare e probabilmente la Procura dovrà tenerne conto. Se la gara non è regolare è chiaro che quell’opera è partita malissimo, è chiaro che se si inserisce quella spesa in un contesto di grandi eventi dove sappiamo che la Protezione Civile aveva carta bianca, senza problemi di nessun tipo, facendo lievitare i costi e portando tutte le modifiche senza una gara naturale, è chiaro che diventa un’opera che presenta tanti punti oscuri.”
Ne viene fuori quella che è stata denominata “la Cricca”?
“Non so come la Cricca abbia potuto inserirsi e manipolare le cose. Io so soltanto che alcuni progetti sono stati visionati a Roma e che, in una notte, siamo passati da quattro milioni e mezzo a quarantuno, poi sono scesi a ventisette milioni, poi sono risaliti… voglio dire (afferma ridendo ndr) che nella notte tra Natale e Santo Stefano mi sembra strano che alla Ferratella a Roma lavorassero anche in quei giorni. Le cronache ci hanno detto cosa facessero alla Ferratella in quel periodo.”
Quali personaggi sono entrati nella tua inchiesta oltre al sindaco di Isernia Gabriele Melogli?
“Innanzitutto tutto proprio una bella intervista al sindaco Melogli che a luglio mi porta a visitare la sua creatura e mi parla in maniera così entusiasta di quello che ha fatto. Mi è sembrata una persona che vivesse fuori dal mondo. Mi ha dato l’impressione di un sindaco completamente scollegato dai problemi della città. Lui parlava di un’opera colossale che sarebbe restata nella storia di Isernia e negli annali molisani e addirittura dell’intero centro sud. Ne ha parlato con tanto entusiasmo che mi ha molto meravigliato. Parlava di quel finanziamento come se non avesse creato qualche problema nelle tasche dei cittadini isernini ma considerava il finanziamento come qualcosa che venisse da lontano e quindi da prendere. Per vincere una lotteria, ha parafrasato Melogli, c’è bisogno di giocare e di prendere il biglietto, se tu non lo prendi non vinci mai .”
Da parte di qualcuno sono emersi problemi per gestione delle varie attività presenti nell’interno della struttura?
“Non riesco neanche ad immaginare come si potrà accendere la caldaia di quel posto. Quanto costerà e soprattutto chi pagherà? Quali contenuti ci saranno all’interno? Questo è il problema.”
Si parla di trentacinquemila metri quadrati…
“Solo in parte, ne è stata realizzata sono una parte infatti perché c’è stato un progetto stralcio. C’è una terrazza, ci sono cose…che poi vedrete. Questo è un percorso della megalomania della politica: forse c’è una autoinganno da parte della politica che fa credere quello che in effetti non è.”
Sai che è nato un gruppo su facebook in difesa dell’auditorium?
“Credo che la realizzazione di quell’opera ognuno se la voglia giocare politicamente: Melogli è al suo secondo mandato ma vuole lasciare il segno, probabilmente il suo successore potrà farsi forza su questa struttura. E’ chiaro che adesso la risposta può essere soltanto questa…ma a che pro? Quanta occupazione si può creare, che tipo di occupazione stabile? Immagino che all’inizio ci saranno i primi contratti a tempo determinato e poi come finirà? Nel corso delle mia indagini in giro per l’Italia ho visto tante situazioni del genere che spesso partono in pompa magna per poi restare completamente abbandonate. “
Dunque non è un problema solo tipicamente meridionale…
“Il concetto è che al sud abbiamo un ulteriore svantaggio: siamo un po’ imbecilli…perché sentiamo il bisogno di fare le cose in grande mentre dobbiamo realizzare cose piccole, noi abbiamo bisogno di uno sviluppo sostenibile. Quella parte dell’auditorium inaugurata è come se fosse una cartina al tornasole per misurare quello che succede da noi. Il Molise ha bisogno di uno sviluppo particolare, tante volte con il Bene Comune abbiamo ragionato su questo argomento. Abbiamo parlato di sviluppo sostenibile che si adatta al territorio, che lo capisce e ne comprende la duttilità. Ed invece qui facciamo cose diverse: portiamo le grandi aziende che non fanno le grandi aziende e se ne vanno, facciamo uno sviluppo che deturpa il territorio ed il bene comune che abbiamo. La nostra puntata di “Cemento” è una sorta di grido di dolore dell’Italia intera. L’auditorium di Isernia rappresenta lo spreco, rappresenta la pazzia anche politica: però in effetti noi raccontiamo tutto quello che accade in Italia dal nord al sud. Nel settentrione troveremo i palazzi di Ligresti che sono completamente vuoti, dati come merce di scambio per lottizzazioni, per vantaggi che sono di tipo corporativo. Racconteremo di Ischia, schizofrenica, dei condoni e del non rispetto delle regole; siamo andati in Emilia Romagna per raccontare delle cooperative rosse che anche loro hanno svenduto il territorio. Tutti svendono qualcosa.”
Non si ancora spento l’eco dell’inchiesta giornalistica di La7 dove è stato intervistato il presidente Iorio sui presunti sprechi derivanti dalla costruzione e l’arredo della nuova sede della Giunta Regionale. Tu cosa pensi dell’atteggiamento della grande stampa nazionale proprio rispetto alla nostra regione?
“Noi siamo una piccola realtà, siamo una regione provinciale. Qui in redazione arrivano continuamente stimoli e notizie per poter fare delle cose sul Molise perché la nostra è rimasta una sorta di isola protetta dal punto di vista mediatico, dove non si è raccontato molto ed invece c’era molto da raccontare. Il problema è questo: noi sappiamo quanta libertà di stampa ci sia in Molise. Chiaramente lo cose son rimaste li: ma la politica corrotta, gli scandali, gli sperperi sono ancora lì e c’era bisogno di raccontare queste cose e adesso si accendono i riflettori perché esistono altri mezzi di comunicazione che aprono uno squarcio su una realtà che era rimasta sempre coperta”.
L’inchiesta di Domenico Iannacone, oltre a mostrare il nervo scoperto degli amministratori isernini, ha avuto il merito di aver alzato gli storici sbarramenti riguardanti la realizzazione definitiva del Museo del Paleolitico isernino, innescando una serie di reazioni a catena. La prima (negativa) ha riguardato il cambio della serratura dell’ingresso del Museo: a pochi giorni dagli sguardi impietosi delle telecamere di Presa Diretta sui problemi della struttura del sito in località la Pineta, permesso grazie al coraggio di Emilio Izzo, dipendente della Sovraintendenza nonché segretario regionale della Uil Beni Culturali (che ha denunciato i fatti in una conferenza stampa tenutasi il 18 febbraio scorso), c’è mistero sulle responsabilità di una scelta per ora non giustificata da nessun atto scritto e pubblico. Le altre reazioni (positive) sono state quelle di numerose personalità del mondo della cultura e delle scienze che, grazie all’intervento di Presa Diretta, hanno potuto conoscere le ricchezze del giacimento di storia presente ad Isernia, promettendo un intervento su scala nazionale. E’ questo probabilmente il Molise che tutti vogliamo sia portato all’attenzione dell’opinione pubblica, è questo il Molise che può vivere il suo futuro con dignità e serenità all’ombra però di scelte rigorose e consapevoli dell’identità di un territorio.
domenica 15 gennaio 2012
INTERVISTA A LORENZO CANOVA
Lorenzo Canova è uno storico dell'arte e critico d'arte italiano, professore associato di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi del Molise dove dirige l’ARATRO, Archivio delle Arti Elettroniche, Laboratorio per l’Arte Contemporanea. Ha pubblicato studi sull’arte del Cinquecento romano, del Novecento e delle ultime generazioni. Ha curato mostre in musei italiani e internazionali. Ha fatto parte della commissione scientifica della Collezione Farnesina e ha fatto parte della commissione inviti della XV Quadriennale di Roma. Nella sua biografia manca all’appello la sua partecipazione nel comitato scientifico della Fondazione Molise Cultura, incarico che dal luglio scorso anno riveste insieme a Giulio Rapetti (in arte Mogol), a Chiara Gamberale, al musicista Pino Nese e allo storico e artista molisano Dante Gentile Lorusso.
Professore che aria tira in campo culturale ad artistico dopo i tagli delle ultime manovre finanziarie? Quale tipo di bilancio e di risorse finanziarie avrà a disposizione la Fondazione Molise Cultura?
“L’aria generale in Italia è purtroppo pesante soprattutto per i tagli alle università e dunque alla ricerca. Però in campo culturale nel Molise effettivamente il presidente Iorio ha intenzione di rilanciare il settore facendo uno investimento importante, sfruttando i fondi Fas. Credo che il Molise in questo senso andrà in controtendenza. Avremo un ottima possibilità per lavorare in maniera adeguata.”
Molti musei in Italia sono in crisi e prossimi alla chiusura. Probabilmente il Molise partendo da zero ha un vantaggio in più rispetto ad altre realtà…
“Speriamo che presto ce ne sia uno adeguato. Ho accettato quest’incarico anche per creare nella Gil uno spazio museale che il Molise non ha e che deve assolutamente avere.”
Ritiene che il modello di fondazione in house deciso dal Governo regionale quale strumento operativo dipendente direttamente dai vertici regionali sia il modello migliore per la gestione, la crescita e la valorizzazione delle politiche culturali nel Molise o crede che la fondazione debba essere aperta ad altri enti e realtà presenti sul territorio per slegarsi da quelli che potrebbe essere indirizzi ed interessi di tipo politico?
“Io credo che la fondazione sia necessaria. Anche il Macro a Roma ed altre realtà museali si stanno riorganizzando in fondazione poiché ciò consente maggiore autonomia e slega la struttura dai troppi gravami burocratici. La mia idea dal punto di vista di sopraintendente è quella di essere non solo aperto ma di avere la necessità di dialogare con tutto il territorio. In questo senso è mia intenzione di creare, lo già annunciato nell’ultima riunione del comitato scientifico, un accordo di programma con l’università che per me è fondamentale sia per la formazione che per sbocchi occupazionali di tanti nostri bravi ragazzi. La nostra realtà sforna tante eccellenze, le porto l’esempio di un mio assistente che ha davvero salvato Sgarbi nella Biennale di Venezia. Si chiama Piervittorio Di Iorio ed ha svolto un ottimo lavoro riconosciuto a livello nazionale. Il Molise possiede una realtà di situazioni molto importanti che vanno ascoltate: questo si è già definito prima di Natale nell’ultima riunione del comitato scientifico. Si andrà presto ad una sorta di stati generali della cultura dove si discuterà e si metteranno in campo le diverse esigenze, affinché escano fuori le realtà più significative che non vanno assolutamente trascurate.”
Finora la Fondazione Molise Cultura ha praticamente sostituito l’assessorato alla cultura, esautorandolo quasi dal suo ruolo, senza avere però strumenti legislativi ma anche regolamenti per l’accesso ai finanziamenti o all’utilizzo di strutture regionali da parte dell’associazionismo culturale. E’ in corso d’opera qualcosa in tal senso?
“La fondazione ha i suoi finanziamenti Non credo che l’assessorato sia stato esautorato. Ritengo però che la Fondazione debba fornire risposte che siano certe e, possibilmente, se ci si trova dinanzi proposte di qualità, queste devono avere una risposta positiva. In qualche modo dovremo trovare uno strumento adeguato, è una situazione in crescita, in itinere.”
Lei dirige l’ARATRO, Archivio delle Arti Elettroniche, Laboratorio per l’Arte Contemporanea. Come si coniuga la mission dell’Aratro rispetto agli artisti molisani e quale è, secondo lei, la qualità della scena artistica presente oggi in Molise?
“La qualità è ottima , la nostra mission è stata sempre quella di valorizzare gli artisti molisani. Non a caso la prossima mostra è dedicata a Nino Barone, importante artista e docente, che verrà fatta a Termoli, luogo fondamentale per l’arte contemporanea in Molise. Ho fatto Limiti Inchiusi, ho fatto e si è chiusa da qualche giorno “Piroflexia”, che ha ospitato le molisane Erica Calardo e Barbara Esposito. L’attenzione verso il Molise è ovvia e fondamentale perché la nostra è l’università del Molise. La scena artistica è davvero ottima, tralasciando Gino Marotta e Achille Pace, ma ci sono anche Giuseppe Petronillo, i nostri amici di Limiti Inchiusi (Borrelli, Lorusso, Grandillo, Colavecchia), ma dovrei elencare davvero tanti artisti … per esempio Giacinto Occhionero di Campobasso, ma anche tutti gli artisti che hanno partecipato al padiglione della Biennale di Venezia ad Isernia non sono male”
Entro quest’anno dovrebbe essere inaugurata l’intera struttura dell’ex Gil nel capoluogo regionale. Pregevole il lavoro di rifacimento della struttura di epoca fascista mentre a tutt’oggi sono state davvero tante le idee per riempire un contenitore culturale così importante, situato nel centro città. Cosa bolle in pentola in tal senso?
“La Gil deve essere inaugurata assolutamente entro quest’anno. Ripeto, quel luogo deve rappresentare un polo museale. Non solo museo ma anche auditorium. Il Molise ha bisogno di un polo museale importante, di una casa delle arti, della musica, del teatro, della danza, della arti performative, visive, del cinema. Ho accettato l’incarico per fare questo. Tra l’altro per me è un discorso quasi personale perché sono amico del nipote dell’architetto Filippone (il progettista della Gil ndr), Stefano Corona, ricercatore e storico dell’arte moderna. Venni coinvolto personalmente quando la struttura stava per essere abbattuta commettendo un crimine inaccettabile.”
Che idea si è fatta invece della vicenda legata all’auditorium di Isernia?“E’ una situazione che non conosco bene. Spero però che possa essere uno spazio attivato e che abbia una sua dimensione per il territorio. Lo spazio è bello, speriamo che venga fatto funzionare bene. Il Molise ha bisogno urgente di presentarsi, il territorio isernino è ricco di valenze archeologiche o di arte medievale che potrebbero avere riverberi turistici importanti, anche attraverso l’aiuto dei miei colleghi di scienze turistiche della mia università, creando una rete di accoglienze turistica e di valorizzazione di una regione bellissima ma che, per una serie di ragioni, gli italiani non conoscono ancora bene. Il Molise non è fatto per il turismo di massa, ci vuole turismo di qualità che si può fare con il turismo internazionale che ha voglia e possibilità di spendere , di mangiare bene e di vedere belle cose, il Molise ha tutte queste qualità. Speriamo di riuscirci.”
Copyright Il Bene Comune
Iscriviti a:
Post (Atom)