La legge della Regione Molise 26 gennaio 2012, n. 2, "Legge Finanziaria Regionale 2012", presenta profili di illegittimità costituzionale relativamente all'art. 3, commi 1 e 2, all'art. 18, commi 1 e 2, all'art. 67, all'art. 68, comma 1, lett. a), all'art. 69 e all'art. 79. 1) l'art. 18, commi 1 e 2, consente l'utilizzo del mezzo proprio e relativo rimborso spese al personale con qualifica dirigenziale titolare di incarichi apicali, ai responsabili di programmi collegati all'utilizzo di fondi comunitari e nazionali, ai funzionari e dirigenti incaricati dell'esercizio di funzioni ispettive o di controllo e di patrocinio legale in occasione delle trasferte di servizio, in caso di impossibilità di utilizzo di idoneo mezzo dell'Amministrazione o di altro mezzo pubblico di trasporto. Tale disposizione regionale contrasta con l'art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122/2010, concernente la riduzione dei costi degli apparati amministrativi, in base al quale per il personale contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165/2001, compreso il personale di cui trattasi, non trovano applicazione le norme relative al trattamento economico di missione contenute nell'art. 15 della legge n. 836/73 (l'autorizzazione all'uso del mezzo proprio per il personale che svolge funzioni ispettive) e nell' art. 8 della legge n. 417/78 (determinazione dell'indennità chilometrica). Pertanto, la norma regionale, nella parte in cui deroga ai principi generali del citato d.lgs. n. 165/2001 determina la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, nonché la violazione dell'articolo 117, comma 2, lettera l) della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell'ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile. Inoltre, la norma regionale de quo, nella parte in cui deroga ai principi di stabilizzazione della finanza pubblica determina la violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione in materia di coordinamento della finanza pubblica. 2) La disposizione contenuta nell'articolo 79 prevede che la gestione del servizio idrico integrato sia affidata all'Azienda speciale regionale Molise Acque, ente di diritto pubblico, la cui natura giuridica non può essere modificata. In proposito occorre premettere che, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 26/2011) è <
lunedì 26 marzo 2012
LE MOTIVAZIONI DELLA BOCCIATURA DELLE LEGGE FINANZIARIA DEL MOLISE DA PARTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
La legge della Regione Molise 26 gennaio 2012, n. 2, "Legge Finanziaria Regionale 2012", presenta profili di illegittimità costituzionale relativamente all'art. 3, commi 1 e 2, all'art. 18, commi 1 e 2, all'art. 67, all'art. 68, comma 1, lett. a), all'art. 69 e all'art. 79. 1) l'art. 18, commi 1 e 2, consente l'utilizzo del mezzo proprio e relativo rimborso spese al personale con qualifica dirigenziale titolare di incarichi apicali, ai responsabili di programmi collegati all'utilizzo di fondi comunitari e nazionali, ai funzionari e dirigenti incaricati dell'esercizio di funzioni ispettive o di controllo e di patrocinio legale in occasione delle trasferte di servizio, in caso di impossibilità di utilizzo di idoneo mezzo dell'Amministrazione o di altro mezzo pubblico di trasporto. Tale disposizione regionale contrasta con l'art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122/2010, concernente la riduzione dei costi degli apparati amministrativi, in base al quale per il personale contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165/2001, compreso il personale di cui trattasi, non trovano applicazione le norme relative al trattamento economico di missione contenute nell'art. 15 della legge n. 836/73 (l'autorizzazione all'uso del mezzo proprio per il personale che svolge funzioni ispettive) e nell' art. 8 della legge n. 417/78 (determinazione dell'indennità chilometrica). Pertanto, la norma regionale, nella parte in cui deroga ai principi generali del citato d.lgs. n. 165/2001 determina la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, nonché la violazione dell'articolo 117, comma 2, lettera l) della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell'ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile. Inoltre, la norma regionale de quo, nella parte in cui deroga ai principi di stabilizzazione della finanza pubblica determina la violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione in materia di coordinamento della finanza pubblica. 2) La disposizione contenuta nell'articolo 79 prevede che la gestione del servizio idrico integrato sia affidata all'Azienda speciale regionale Molise Acque, ente di diritto pubblico, la cui natura giuridica non può essere modificata. In proposito occorre premettere che, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 26/2011) è <
sabato 24 marzo 2012
L'ADELCHI VA ALLA GUERRA
Intervista all’autore Adelchi Battista in occasione dell’uscita del suo primo romanzo “Io sono la guerra”, edito da Rizzoli. La caduta del fascismo, l’invasione degli Alleati in Sicilia, la controffensiva dell’esercito sovietico, le paure degli ufficiali tedeschi: tutto comincia alla fine del giugno 1943.
I destini della seconda guerra mondiale raccontati percorrendo un network di personaggi e di comprimari che parteciparono da vinti e da vincitori, spesso soltanto da vittime, ai fatti del luglio 1943. Il primo romanzo di Adelchi Battista “Io sono la guerra” supera la retorica del romanzo storico e contemporaneo per gettare il lettore in una rete di informazioni, date, numeri ma anche di anime dei personaggi, senza avere nessun altro senso, dato che non esiste la fine classica del romanzo, che quello di raccontare con efficacia e ritmo tutto quello che determinò nei giorni a seguire quel lasso di tempo. Edito da Rizzoli “Io sono la guerra” è il primo romanzo di Battista che dopo le sue belle esperienze in televisione e radio (Rai, Radio 24, Radio Italia Nework) come autore e nel teatro, è approdato lo scorso anno nella storica casa editrice milanese per pubblicare dopo un gigantesco lavoro di documentazione e rielaborazione di informazioni l’idea di un romanzo storico vero ma non cronachistico. Parlare con Adelchi Battista è facile: sia perché abbiamo condiviso nel post adolescenza medesimi luoghi ed esperienze ma anche perché la sua disponibilità ed il suo entusiasmo sono sempre stati totali. Lo incontriamo nella nostra redazione che scruta con interesse, non prima di una bella chiacchierata privata sulla nostra città sognata ma mai realizzata, dinanzi alla nostra bottiglia in vetro colma di acqua naturale e che naturalmente deve restare pubblica.
Parafrasando un autore brasiliano che io amo molto come Jorge Amado, Adelchi Battista non è stanco di guerra?
“Non ancora, è complicato comunque gestire questo genere di informazioni e di tesserne certe trame ma ho intenzione di concludere questo lavoro che vuole chiudere così la sezione temporale inquadrata nel mio libro ma anche quella successiva. “Io sono la guerra” si conclude con la caduta di Mussolini avvenuta il 25 luglio del 1943, da circa un anno e mezzo sto lavorando per una seconda parte che guarderà ai quarantacinque giorni del governo Badoglio, l’armistizio, la Liberazione fino all’uccisione di Mussolini avvenuta il 12 settembre. Solo dopo questa seconda parte che non ha ancora un titolo, potrò dire di aver finito con la guerra.”
Circa sessanta personaggi caratterizzano il tuo lavoro. Da Churchill a Stalin, da Hitler a Mussolini ma anche prefetti, gerarchi, semplici soldati e ufficiali, fino a Lucky Luciano ed un giovane avvocato di nome Michele Sindona, entrano con i loro destini, le loro decisioni, i loro dubbi dentro la storia della Guerra Mondiale e non ne escono più.
“E un approccio un po’ particolare, nel senso che non esiste il concetto classico del romanzo storico. Nei romanzi storici solitamente troviamo inserti di fiction pura all’interno di sfondi reali, io voluto condurre un’operazione opposta cioè ho voluto rendere fatti assolutamente veri, chiaramente in alcuni casi un po’ arrangiati, ma senza l’ausilio della fiction, cioè senza un personaggio, un gruppo, una famiglia. In questo caso è stata la Storia stessa che si è trasformata in un romanzo. Per fare ciò ho dovuto però tenere conto di tante interazioni. Noi crediamo che la Storia sia fatta dai grandi capi di stato, in realtà io credo che il ero orizzonte degli eventi sia determinato da una serie di quadri intermedi che sono le seconde gerarchie del fascismo, i generali di Hitler, gli ufficiali ed i soldati americani, italiani, russi e così via.”
E’ stato difficile per te reperire tutte queste fonti?
“Ci sono voluti ben quattro anni di lavoro sugli archivi di mezzo mondo che, però devo dire, sono stati abbastanza facili grazie alla tecnologia. Oggi abbiamo possibilità che, per gli storici anche solo di soli cinque – dieci anni fa, non esistevano, a meno che non fossero ricchissimi per potersi permettere un viaggio per visitare gli archivi oggi a Londra piuttosto che a Washington. Oggi tutto questo materiale è in rete: i governi occidentali ma anche quello russo, giapponese e cinese hanno fatto un buon lavoro. Quello italiano invece è indietro sotto questo punto di vista: gli archivi italiani devono essere visitati ancora a piedi, solo adesso si comincia ad intraprendere qualche passo. Al contrario delle biblioteche: un gran lavoro è stato fatto proprio a Campobasso dagli amici della Bibliomediateca che mi hanno reperito dei documenti di difficile accesso. Tutto ciò permette una visione molto più ampia, molto più analitica e precisa dei singoli avvenimenti.”
Hai inquadrato il tuo romanzo in un mese ben preciso. Che tipo di scelta hai compiuto?
“In quel mese la guerra subisce una svolta abbastanza radicale cambiando segno. In generale noi italiani abbiamo sempre avuto un problema con la guerra, ovvero iniziare con uno e finire con l’altro, per motivi non sempre ben compresi. Nel mio caso all’interno di questo periodo sono accadute cose, secondo me, che ci hanno fatto capire bene in che razza di guaio ci eravamo cacciati. La popolazione lo ha capito abbastanza rapidamente poiché è quella che subisce sulla propria pelle gli errori dei potenti ma è impotente, poi lo hanno capito le sfere intermedie come i prefetti, i gerarchi e per ultimo lo capisce anche il Re. Quando quest’ultimo si sveglia si prendono i provvedimenti nonostante però i disastri siano già molto avanti. In quel mese dunque c’è la comprensione del disastro, poi c’è l’invasione del territorio da parte degli alleati ma c’è anche l’inversione di tendenza della guerra in Russia con la controffensiva dell’esercito sovietico che da quale momento arriverà fino a Berlino senza mai fermarsi. E’ il momento in cui la guerra subisce una svolta e credo che questo momento doveva essere scritto nella maniera più analitica possibile per descrivere come avvengono certi mutamenti in guerra. In realtà quando si scrive un romanzo storico si vuole parlare di oggi non del passato quindi è il mutamento di governo che mi interessava più di altre cose. Ho cercato tante analogie (la caduta di Berlusconi ndr), senza cadere nella trappola, però le ho cercate e secondo me ne ho trovate tante.”
Sotto l’aspetto narrativo e storico trovo molto interessante, riferendomi alla parte relativa allo sbarco degli angloamericani in Sicilia, quando entra in campo accanto al boss Lucky Luciano, un giovane avvocato di Messina di nome Michele Sindona, nell’operazione Avalanche.
“E’ un fatto storico anche se tanti commentatori non hanno mai voluto seguire questa traccia. E’ un fatto che l’amministrazione americana abbia cercato settori mafiosi per facilitare il proprio ingresso nell’isola. Tant’è che hanno chiesto, secondo quando poi si è accertato, a Lucky Luciano che era in galera, scontando diversi ostacoli, un elenco di nomi che potessero in qualche modo facilitare l’avanzata dell’esercito. Luciano ottenne di scontare la pena in Sicilia, tutti quei nomi divennero in seguito sindaci della quasi totalità dei comuni siciliani. Penso a Villalba con Calogero Vizzini, penso a Musumeni con Don Giuseppe Giancorusso e così via, dando spazio e cittadinanza al Movimento Indipendentista Siciliano che, insieme a Salvatore Giuliano ha portato alla strage di Portella delle Ginestre. Rispetto a Sindona, allora giovane avvocato messinese che a soli ventitre anni era a capo dell’ufficio delle imposte della città sullo Stretto, nell’episodio viene istruito proprio da Lucky Luciano, in effetti non ci sono prove dirette sulla sua presenza negli States) sulla ricerca dei nomi di cui sopra.”
Nella tua vita di autore hai lavorato per lungo tempo nel mondo teatrale, musicale e radiofonico. Cos’altro hai in riserbo, oltre alla seconda parte di “Io sono la guerra”?
“Non dovrei dirlo ma mi pare di capire che nel 2012 ci sarà anche la produzione di un film con una mia sceneggiatura. Non voglio anticipare ancora nulla poiché siamo ancora in una fase embrionale del progetto che però ha ricevuto interessi molto ma molto particolari che se dovessero andare in porto, suppongo potrà far parlare di se.”
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sabato 10 marzo 2012
Gaetano Meomartino e il Mucchio Selvaggio in Molise
Transitando lungo l’unica arteria che congiunge il Molise centrale alla costa è facile fantasticare l’esistenza di feroci pellirosse e sanguinari banditi nascosti lungo i crinali di certe colline, identiche a quelle immortalate in tante pellicole di scalcagnati spaghetti western negli anni ‘70. Guardando a quanto accaduto tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 nelle campagne della Capitanata che si estendevano tra il nord della Puglia ed il Basso Molise, il paragone esiste, eccome.
Come nel Far West sporco, puzzolente, povero e feroce di Sergio Leone, nella nostra storia locale non meno sporca, puzzolente, povera e feroce di quella narrata dal regista di “Per un pugno di dollari”, sono esistiti personaggi dalle personalità complesse, veri e propri antieroi, che hanno vissuto, ucciso e fatto uccidere senza troppi scrupoli. La storia di Gaetano Meomartino, capo di una compagnia di mercenari a cavallo, è una di queste.
Personaggio inquieto, una sorta di primula rossa che ha saputo navigare per quasi venti anni tra l’occupazione francese del Regno di Napoli, la carboneria, la corte borbonica a Palermo e i sanfedisti, venendo trucidato dalle Regie Milizie del Molise residenti ad Ururi (comune arbreshe molisano), insieme ai suoi fratelli e alla sua banda di contractors ante litteram. Non un semplice brigante, dunque.
“Fra i suoi occulti protettori vi erano cittadini d'ogni classe sociale, funzionari governativi, magistrati perfino; e quindi, o per spirito settario, o per tema, o per interesse, o per altri ignobili motivi, una fitta rete d'informatori favoriva il bandito, tutti in gara a prevenirlo dei progetti e delle disposizioni dell'Autorità costituita.” Così scriveva lo storico Giambattista Masciotta nel quarto volume dell’opera “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” nel 1952, raccontando le gesta del Meomartino.
Lo storico racconta con dovizia di particolari tutta la vicenda che ebbe addirittura l’opportunità di essere immortalata nel 1963 nel film “L’ultima carica”, per la regia di Leopoldo Savona. Ovviamente la trama è lontanissima da fatti realmente accaduti e raccontati dal Masciotta. Il soggetto narra di una storia d’amore nata tra il brigante - patriota Rocco Vardarelli (Tony Russell) e Claudia (Haya Harareet), una bella aristocratica, ai tempi della dominazione francese. Nel cast anche un giovanissimo Oreste Lionello. Tra gli sceneggiatori anche Bruno Corbucci.
Ma chi era Gaetano Meomartino e perché la sua banda era chiamata dei Vardarelli? Nato il 13 gennaio 1780 a Celenza Valfortore, viveva a Castelnuovo delle Daunia quando fu chiamato nelle fila dell’esercito dalle circoscrizioni murattiste. “Giovane di torbido animo, manesco, indisciplinato, anelante ad elevarsi in condizione sociale per desiderio di ozii beati” scriveva Masciotta, Meomeartino fuggì in Sicilia come disertore ben sapendo che la Corte borbonica accoglieva tutti i “profughi” del continente, senza spesso indagarne le origini. Un fuga che durò qualche anno prima di dover fuggire per evitare la galera. Tornato nella sua terra d’origine si mise alla testa di una numerosa banda di malviventi che, secondo le cronache, montava buoni cavalli ed era fornita delle migliori armi in circolazione. Meomartino era smanioso di dare fastidio all’occupazione francese, convinto della prossima restaurazione dei Borboni sulla terraferma. Da Napoli milizie scelte furono inviate per affrontare la banda dei Vardarelli ma la banda “si sciolse misteriosamente come misteriosamente si era formata”, e Gaetano tornò nuovamente in Sicilia dove i suoi delitti furono considerati ottimi requisiti nei confronti dell’usurpatore francese e dove venne nominato Sergente del Corpo delle Guardie.
Arrivò la restaurazione borbonica che non tenne fede alla promessa di una riforma agraria e Meomartino nello stesso anno (era il 1815) disertò nuovamente per mettersi a capo di una banda ancor più numerosa, insieme ai fratelli Giovanni e Geremia. I Vardarelli contavano cinquanta uomini a cavallo: in breve tempo, scrive ancora il Masciotta “acquistò funesta rinomanza di coraggio temerario e di potenza indomabile nell'intera Capitanata. Era invocato dai poveri contro gli abusi e le prepotenze dei ricchi: ed egli accorreva prontamente e faceva vendetta, riservando a sè ed ai suoi la parte leonina delle spoglie.” Fu così che il nome della banda divenne popolare. Con la base situata nell’alta valle del Fortore, Meomartino faceva partire rapide incursioni in Capitanata, Molise, Irpinia, Terra di Bari e Terra d’Otranto, giungendo ad accordarsi politicamente anche con il prete brigante Don Ciro Annicchiarico.
Il nome della banda derivava dal mestiere del padre dei Meomartino che era un vardaro, un costruttore di basti e selle speciali per asini e muli; i figli del "vardaro" erano ovviamente i "vardarielli". Nonostante tutti gli sforzi il governo borbonico non riuscì a fermare la banda che conquistava sempre più le simpatie delle masse rurali ma anche quelli della Carboneria: secondo il Masciotta Meomartino infatti “rivestiva un grado nella formidabile setta; onde riusciva a sapere, in precedenza all'esecuzione, gli ordini spiccati contro di lui, e perfino le misure che erano allo studio o in via di maturazione.”
Pur di tenere buona una provincia sterminata e ricca per le sue magioni, il governo borbonico nel 1817 tratta con la banda, concedendo il perdono. E’ il ministro di polizia, il marchese Luigi de Medici, a trasformare la banda in squadriglia autonoma di armigeri, sottoposta agli ordini dei Generali comandanti delle provincie, assegnando lo stipendio mensile di 30 ducati ai militi, di 45 ducati a ciascuno dei germani del Capo, e di 90 ducati a Gaetano Meomartino. Una sorta di contractors ante litteram, una pratica comune nel passato (basti pensare a come la corona inglese si era avvalsa dei corsari nella lotta contro gli spagnoli), che in breve tempo ripulirono la Capitana da tutti i malviventi. Questa posizione controversa era vissuta in maniera guardinga dalla banda che comprendeva la stranezza della propria situazione giuridica e morale. Correva voce, inoltre, che l’onta della nomina sarebbe stata presto lavata con il piombo e non con il denaro promesso. Malgrado ciò, scrive Masciotta “Il Governo centrale… non riusciva, peraltro, a trovare un ceffo capace di tentare una minima impresa contro il Meomartino e i suoi.”
Il pretesto si presenta quando i Vardarelli rifiutano di essere trasferiti a Sora per sedare una rivolta dei militari all’interno della fortezza di Gaeta. Essi non volevano, infatti, allontanarsi dalle loro terre. Il re, però, considera il rifiuto come un atto di diserzione e decide la fine della banda. Il generale Church riceve il comando delle forze per la repressione del brigantaggio e si trasferisce a Barletta, dove insedia il suo quartier generale. La capitolazione della banda arrivò per puro caso. Meomartino spesso si fermava ad Ururi per fare rifornimenti, cittadina che da venti anni era scossa da una faida tra due importanti famiglie: gli Occhionero ed i Grimani. Una faida nata durante l’occupazione francese che vedeva protagonista il comandante delle truppe francesi di passaggio che, ospite nella casa di Nicola Grimani, aveva superato il limite imposto dalla convenzioni locali riguardo alla cortesie nei confronti della moglie dell’Occhionero, dirimpettaio del Grimani. Da qui nacque un alterco tra il comandante francese e lo stesso Occhionero che finì schiaffeggiato. “Nell'animo dell'oltraggiato – scriveva il Masciotta - sorse ed ingrossò poi il sospetto che il Grimani avesse suggerita la visita al manesco comandante, donde nacque un livore che per oltre mezzo secolo perdurò, alimentato scambievolmente e tenuto desto con aggressioni, incendi, abigeati, calunnie, appostamenti, assassinii, e tutto ciò che le passioni più cieche possono ideare ed il braccio eseguire.” Come nel Mucchio Selvaggio le incursioni dei Meomartino si fecero sempre più truculente: nel corso di questa rivalità i Vardarelli, alleato con Emanuele Occhionero poiché Gaetano aveva battezzato la figlia Giacinta, avevano ucciso trecento suini nella masseria dei Grimani; una seconda volta ottanta vacche; una terza volta avevano dato fuoco ai campi coltivati e, l’ultima, avevano violentato tutte le donne di casa dinanzi agli uomini legati. Episodi che reclamavano vendetta: i Grimani allertarono dalla vicina Portocannone il distaccamento delle Regie Milizie del Molise al comando del tenente Nicola Campofreda. Meomartino, del resto, era diventato una presenza difficile da gestire anche per lo stesso Occhionero che era infastidito dalle sue frequenti visite. Non solo, lo stesso Occhionero ormai veniva descritto dai suoi nemici come manutengolo, ricettatore e marito “paziente”.
La morte di Gaetano Meomartino arriva dunque la mattina del 9 aprile 1818 durante una rivista della squadriglia in piazza, proprio dinanzi la casa dei Grimani. Prima i colpi di moschetto, poi la scarica di fucileria. Restano sullo sterrato sette cadaveri crivellati di proiettili: si tratta di Gaetano, Giovanni e Geremia Meomartino, Serafino Viola di Portocannone, Carlo Tosto di Torremaggiore, Domenico di Furia da Panni (Avellino), Tommaso Sanpoli di Pietracatella. Dall’agguato fuggirono trentanove gregari che, nonostante la latitanza, vennero richiamati a Foggia dal generale Amato, comandante della Provincia, affinchè in ossequio al Regio Decreto che ne aveva fatto una squadriglia di armigeri, eleggessero un nuovo capo. Una chiamata che rivelò presto un tranello per sconfiggere definitivamente la banda che, accerchiata nuovamente dalle truppe regolari, lasciò sul campo nove morti. Circa una decina, tra i più destri, riuscirono invece a fuggire in sella ai propri cavalli, altri venti si rifugiarono in una vecchia cava dove precipitarono e trovarono la morte asfissiati poiché i soldati gettarono materiale infiammabile per stanarli senza successo. “Questo miserando epilogo della tragedia in Ururi iniziata – scriveva il Masciotta - sta ad attestare la bassezza dei tempi, e la compassionevole debolezza che voleva parer forza del governo dei Borboni. L'eccidio avvenuto in Ururi non fu seguito da processo. Nessuno, quivi, ebbe torto un capello. Così fini la gesta dei Vardarelli.”
I DOCUMENTI UFFICIALI
Il Sindaco di Ururi spedì al Sottintendente di Larino il seguente rapporto "ad usum Delphini": in opposizione cioè alla realtà degli avvenimenti quale noi abbiamo or ora esposta: "Ururi, 9 aprile 1818" Sig. Sotto - Intendente, "Ieri che si contavano li 8 di questo aprile, essendo giunta la Compagnia del sig. De Martino (sic), dopo di essere stati tutti bene alloggiati, han cominciato a mettersi sossopra, prendendo occasione che l'avena, che doveva somministrarsi per i loro cavalli, era di cattiva qualità, non ostante che esso suddetto de Martino, con sue lettere preventive, che qui si conservano, aveva ordinato che io avessi tenuto pronta detta avena per i suoi cavalli. "Conoscendo dunque che costoro erano qui giunti male intenzionati, ho cercato ogni mezzo di capacitarli coll'essere andato io di persona per il paese questuando orzo e contentarli. Finalmente capacitatili con le mie dolci maniere, jeri sera mi è riuscito mantenere la tranquillità; ma perché nella passata notte non solamente tutti han cercato di maltrattare la cittadinanza, e con domandare spese di vitto fuori dell'ordinano e col toccare la stima di alcune famiglie, cos“ con l'occasione d'essersi qui trovata esistente (sic) la colonna Mobile sotto il comando del signor D. Nicola Campofreda" ( 399 ), questi volendo questa mattina compatire la cittadinanza maltrattata, "venne in altercazione con l'intiera compagnia del suddetto De Martino, il quale, si lui "che i suoi fratelli, avendo cominciato a far fuoco, tanto essi che i loro compagni sia contro della compagnia del suddetto signor Campofreda che contro questa popolazione, quali per non restar vittime del loro furore, si posero tutti alla difesa, formando un fatto d'armi il più strepitoso che mai possa credersi, dentro del quale restarono morti tutti 3 i fratelli de Martino, un tale per nome Serafino Viola, molti altri fuggiti gravemente feriti, ed altri morti, che non ancora mi riuscito di sapere chi siano, riserbandomi di darvi con altra mia più distinto e chiaro rapporto, giacché ora mi trovo nella massima confusione. "Compiacetevi di passarne subito avviso a' legittimi Superiori, affinchè questa povera infelice popolazione non abbia a soffrire qualche sinistro avvenimento, non essendo in menoma parte colpevole di cosa alcuna, compiacendovi ancora farmi sapere se i cadaveri possono seppellirsi o debbono riconoscersi e formarne le debite carte, prevenendovi di ritrovarsene uno ferito, che vi compiacerete ordinarmi se debbo subito costì mandarlo.
Il Sindaco Giovanni Musacchio
Nel Libro parrocchiale dei Defunti è scritto, invece: "Ururi, 9 aprile 1818 "Gaetano de Martino, figlio di Pietro quondam e Donata Iannantuono, del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo, morto ammazzato a colpi di schioppettate, in età sua di anni 40 circa, senza ricevere alcun sagramento, verso le ore 15 di detto giorno. Il suo cadavere si è seppellito nella Congregazione dei morti di questo suddetto Comune.
"Firmato " Pasquale Schiavone Economo Curato
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