giovedì 23 agosto 2007

IL TENENTE BANDELLI LASCIA VENAFRO, L'APPREZZAMENTO DEI VERTICI DELL'ARMA


Questa mattina, il Tenente Antonio BANDELLI ha lasciato l'incarico di Comandante della Compagnia Carabinieri di Venafro, per partire alla volta di Foggia, ove assumera' quello di Capo Ufficio Comando presso il Comando Provinciale.

L'ufficiale, vanta al suo attivo numerose esperienze operative, come Sottufficiale presso il Reparto Operativo di Campobasso e la Compagnia di Boiano e, da Ufficiale, presso il Nucleo operativo e radiomobile di Isernia, per arrivare infine all’impegnativo incarico di Comandante della Compagnia di Venafro che ha retto per quasi quattro anni, dal 6 ottobre 2003.

"Un solo rammarico - ha sottolineato questa mattina il Tenente, durante la cerimonia di saluto che si è tenuta a Campobasso presso il Comando Regione Carabinieri "Molise", - ed è quello di non essere riuscito a salutare tutte le autorita' locali con le quali ho condiviso significativi momenti di collaborazione e di confronto e tutti i miei amici che, in questi quattro anni, sono stati accanto a me ed alla mia famiglia; l'esperienza in Molise - ha aggiunto- è stata un'esperienza sicuramente positiva, non scevra di arricchimenti umani e professionali".

Il Colonnello Saverio NUZZI, Comandante interinale della Regione, ha salutato il collega alla presenza di numerosi ufficiali, ricordando come l’incarico che l’ufficiale andrà a ricoprire sia devoluto ad ufficiale superiore e in area geografica espressamente richiesta dall’ufficiale, a riprova della considerazione dell’Arma per l’impegnativo incarico svolto e i risultati ottenuti; inoltre, l’augurio per un futuro altrettanto ricco di soddisfazioni personali e professionali e il ringraziamento per l'attenzione e la grande umanita' dimostrata nei confronti di tutti i suoi collaboratori e della cittadinanza.

martedì 31 luglio 2007

E' MORTO GIOVANNI PESCE, IL GAPPISTA VISONE


di Wladimiro Settimelli
da L'Unità on line

Come per tutti i ragazzini, le grandi imprese, il coraggio, la determinazione, l'impugnare una pistola in pieno giorno e andare all'attacco, richiedevano sempre un uomo grande e grosso, un eroe alto e massaccio, senza paura e pronto a scattare al minimo pericolo. Invece, Giovanni Pesce, medaglia d'oro della Resistenza, comandante dei Gap - i gruppi patriottici che attaccavano i nazisti e i repubblichini tra la gente, per strada, sul tram o in treno - era piccolino, tranquillo, silenzioso. Insomma, non parlava mai più del necessario e quando lo faceva erano parole senza ostentazione, protervia o sciocche vanterie. Quando lo aveva visto la prima volta, da ragazzo appunto, ero quasi rimasto deluso. Poi, con il trascorrere degli anni, avevo capito e, in più di una occasione mi ero fermato a chiacchierare con lui a lungo, nella speranza di capirne fino in fondo la mente, il cuore, le scelte, la paura e la tragedia: quella di dovere sparare a qualcuno, per strada, senza battere ciglio.

L'altra notte Giovanni Pesce, nome di battaglia «Visone», è morto a casa sua, a Milano, assistito dalla moglie Onorina, nome di battaglia «Sandra», la cara staffetta che, nel 1943, era l'unica a poterlo avvicinare per consegnare gli ultimi ordini del Comitato di Liberazione nazionale e della direzione del Pci. Già, perché il più famoso gappista d'Italia era comunista e veniva da una famiglia antifascista abituata al lavoro e alla sofferenza.

La biografia di Giovanni ha dell'incredibile. Quando lui raccontava di quella sua vita complicata e diversa dal solito, potevi stare ore ad ascoltarlo. Era nato nel 1918 a Visone D'Acqui, in provincia di Alessandria. Il padre, presto, molto presto, era stato costretto ad andarsene da casa e ad emigrare in Francia con tutta la famiglia. I fascisti non davano tregua. Erano finiti in un paesetto con le miniere e Giovanni, nella piccola vineria aperta dal padre, trascorreva ore e ore con «musi neri». A volte, qualcuno finiva lo stipendio cercando di soffocare nel bere la miseria e la nostalgia. Ecco Pesce, ascoltava sempre quei minatori e da loro imparava e capiva. Poi, anche lui, a quattordici anni, era finito giù nelle gallerie per quattro soldi.

Il giorno che l'Italia fascista aveva attaccato la Francia ormai messa alle corde dai nazisti, lo avevano trasferito in un campo di prigionia. Poi il rientro, da solo, a Visone. Una spiata lo aveva fatto finire in carcere e poi al confino di Ventotene , dove aveva conosciuto Pertini, Terracini e tanti, tanti altri compagni.

Nel 1943, con il crollo del fascismo, «Visone» era tornato di nuovo a casa. Poi, il partito lo aveva mobilitato per fondare i Gap a Torino. Ma il lavoro più duro e difficile lo avrebbe, più tardi, affrontato a Milano. Era stato inviato in Lombardia per occuparsi delle grandi fabbriche perché fascisti e nazisti terrorizzavano gli operai. Centinaia di loro venivano, tra l'altro, trasferiti nei campi di sterminio. E guai a protestare o scioperare. C'erano, tra gli addetti alle macchine di alcune grandi industrie, capi e capetti che facevano la spia. O personaggi che, per una manciata di soldi e qualche chilo di sale (che Italia terribile e piena di odio e di terrore in quel '43, '44 e '45) erano disposti a vendere chiunque. C'era bisogna, dunque, di una azione forte che facesse sentire agli operai che la Resistenza pensava a loro e alla loro protezione. Giovanni Pesce, dal nulla, aveva imparato a sparare, Non solo: portava sempre addosso due pistole, non una sola. Ed era diventato uno che non sbagliava mai un colpo. Viveva isolato in un microscopico appartamento e usciva soltanto per l'attacco improvviso e per incontrare altri due o tre compagni dei Gap. Ma quando entrava in azione era sempre solo: non si fidava di nessuno.

In uno dei tanti incontri, gli avevo chiesto: «Ma non avevi paura?», e lui: «Eccome». Poi aveva ancora spiegato: «Una volta ho detto ai compagni che quel comandante dei repubblichini addetto agli arresti nelle fabbriche, non era arrivato in ufficio. Invece c'era. Ma io ero stato colto dal tremito e dal panico e non avevo fatto nulla. La volta successiva, dopo alcune esitazioni, era partito deciso ad assolvere all'incarico. Ero entrato nel bar dove il comandante stava facendo colazione. Mi ero avvicinato e avevo spianato la pistola. Per un attimo ci eravamo guardati negli occhi. Un attimo che non finiva più. Avevo letto in quello sguardo la sua paura, il suo terrore. Poi avevo visto che stava mettendo la mano alla pistola. Allora avevo fatto fuoco tre o quattro volte. Subito dopo ero uscito e saltato sulla mia bicicletta. Dovevo giustiziare quel comandante. Sapevo dei nostri compagni e di tanti innocenti, torturati, impiccati, fucilati».

Quante volte hai sparato avevo chiesto a Giovanni. E lui aveva risposto: «Molte, molte volte. Non le ho mai contate». Poi ancora aveva aggiunto: «Sai che nel dopoguerra, su un tram a Milano, ho incrociato gli occhi con la moglie e figli di un famoso spione che avevo liquidato. Ci siamo sfioranti e ognuno e andato per conto proprio. Credimi è stata dura. Ammazzare, anche se in guerra e nella battaglia più grande per la libertà, non è facile. Ogni volta mi si stringeva il cuore».

Nella motivazione della medaglia d'oro, si ricorda che «Visone» era stato, insieme a un compagno dei Gap gravemente ferito, inseguito dai nazisti. Lui aveva preso sulle spalle quel ferito e, sparando come un pazzo, si era dileguato. Pochi giorni dopo, con altri, aveva assalto «Radio Torino» ed era riuscito a distruggere parte degli impianti, nonostante la presenza di una decina di nazisti e un gruppetto di repubblichini. Imprese incredibili e straordinarie.

Nel 1945, a Milano, nei giorni della Liberazione, era stato affrontato da un gruppo di ragazzini con il fazzoletto rosso al collo che avevano gridato: «Comodo aspettare che i partigiani ti liberino. Comunque, puoi uscire dalla cantina dove ti eri rintanato come un topo». Lui non aveva risposto, ma aveva sorriso appena, appena per poi girare oltre l'angolo.

Caro «Visone», la tua parte per tutti e per la nostra Italia, l'hai fatta. Un abbraccio.

mercoledì 25 luglio 2007

QUALCHE IPOTESI SUL PERCHE' ANCHE NEL MOLISE LA GIUSTIZIA NON FUNZIONA


Procure che non funzionano...leggiamo i perchè....

Giustizia profumo d’intesa
di Marco Travaglio


Grandi notizie dal fronte della giustizia. In un mese di vita, fra una sparata sulle frecce tricolori e una sulle stanze del buco, il “nuovo” governo è riuscito a non bloccare l’entrata in vigore della legge Castelli sull’ordinamento giudiziario, che da lunedì farà i primi danni. Le vittime, guardacaso, sono i giornalisti e i magistrati, le due categorie più invise a lorsignori.
I due poteri di controllo che dovrebbero vigilare sulla politica e sui quali invece la politica pretende di vigilare. La prima porcata che entra in funzione è il decreto Castelli n. 106, che espropria i sostituti procuratori e gli aggiunti dell’azione penale, ora riservata in esclusiva ai procuratori capi: se prima, per controllare le Procure, bisognava mettere il guinzaglio a 1500 pm, ora basterà addomesticare una trentina di magistrati.
I vertici delle Procure avranno di nuovo, come negli anni d’oro dei porti delle nebbie, potere di vita e di morte sulle indagini, sulle richieste di cattura, e financo sui rapporti con la stampa. Basterà che in una Procura il capo sia un insabbiatore, e nessuno dei sostituti potrà più fare nulla. Né potranno saperlo i cittadini, perché i pm dovranno evitare qualunque contatti con i giornalisti, categoria notoriamente infettiva. E non solo i pm non potranno più dir nulla sulle indagini, ma dovranno pure astenersi da qualunque “attività di centri politici” che inficino “anche l’apparenza” d’imparzialità. Vietare attività di partito, che peraltro nessun magistrato fa, è giusto. Ma l’accenno alla “politica” tout court è un abominio. Tutto è “politico”. Un magistrato che esprime un parere tecnico su una legge in materia di giustizia, come un chirurgo che commenta una legge sulla chirurgia, fa “politica”, esercitando un suo diritto,e spesso un suo dovere costituzionale.
Ora non potrà più farlo, nemmeno per difendere la Costituzione a cui ha giurato fedeltà dalle mire di una classe politica che non la sopporta. E, se lo farà, finirà sotto procedimento disciplinare: Armando Spataro ha annunciato obiezione di coscienza, il che gli fa onore. Se lo facessero tutti i magistrati, sarebbe una grande conquista: 9 mila procedimenti disciplinari contro altrettanti difensori della Costituzione che il Parlamento tenta di manomettere da almeno dieci anni. Uno spettacolo impagabile.
Ma le buone notizie non sono finite. Il neosenatore ulivesco Antonio Polito annuncia con giustificato orgoglio di aver raccolto 40 firme fra tutti i partiti, eccetto la Lega Nord e Italia dei Valori, in calce alla proposta di legge per una commissione parlamentare d’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche, che tanti dolori han dato in questi anni a mafiosi, narcotrafficanti, terroristi, ma soprattutto a Fiorani, Ricucci, Consorte, Gnutti, Fazio, Moggi, Carraro e altri furbetti del quartierino e del palloncino. Il presidente della commissione Giustizia Cesare Salvi, piuttosto taciturno sull’entrata in vigore della Castelli, si è ridestato d’improvviso per firmare la legge Polito che, annuncia, sarà discussa “subito dopo il referendum”.
Priorità assoluta: il modo migliore per iniziare la legislatura col piede giusto, per l’entusiasmo degli elettori (già su di giri per l’avvio di promettenti trattative fra Mastella e il duo Pecorella-Ghedini). Se l’avesse proposta Berlusconi, nessuno a sinistra l’avrebbe firmata. Invece l’ha proposta Polito, dunque firmano tutti. E’ così che funziona il “dialogo”: uno di sinistra ricopia a una a una le poche leggi-vergogna rimaste nel cassetto di Bellachioma e cerca i consensi nel proprio campo. A quel punto il più è fatto: il Polo ci sta, visto che è tutta roba sua. Non è meraviglioso?
Scorrendo l’elenco dei firmatari, al fianco di Angius (Ds), Treu, Mancino, Bianco e Binetti (Dl), Malabarba (Prc), Cutrufo (Dc) e Cossiga, si scorgono due nomi prestigiosi: Marcello Dell’Utri e Luigi Grillo. La qual cosa ha molto impressionato il Polito Margherito, tutto emozionato all’idea che i due noti giureconsulti apprezzino la sua trovata. Il fatto che siano l’uno sotto processo e l’altro sott’inchiesta anche in base a intercettazioni che li immortalano rispettivamente a colloquio con noti mafiosi e noti furbetti, non incrina minimamente la fregola politesca. Sventuratamente non ha potuto aderire Totò Cuffaro, anche lui vittima delle microspie, ma impegnato in Tribunale. Firmerebbe anche Ricucci, ma solo a patto che la commissione facesse luce su un altro malcostume giudiziario: quello di perquisire controsoffitti e sofà. Enzo Bianco, per nulla insospettito dalla compagnia, osserva: “Le intercettazioni sono una vera emergenza nazionale,e per le firme non si può chiedere il certificato di vaccinazione”. Sante parole. L’emergenza non sono i reati scoperti dalle intercettazioni: sono le intercettazioni. Prossimamente su questi schermi, una legge per debellare l’influenza abrogando i termometri.