domenica 29 aprile 2007

MOLISE


Sei mai stato in Molise?
Il Molise due giorni di sole e cento di pioggia
Sei mai stato in Molise?
Chi ti incontra canta sempre la canzone:
“Quando sei arrivato, quando te ne vai?”
Molise, Molise puozz’esse accise
Quattro calci al pallone davanti a Santa Maria
Tu credevi di diventare un campione
una chitarra comprata vendendo il pallone
e nn’ammore ee’uagliune fornite pa’via
Amore mio, addio
Chi si è mai dimenticato
Addio, chi si è rassegnato mai
Addio

Sei mai stato in Molise?
Il Molise due giorni di sole e cento di pioggia
Sei mai stato in Molise?
Il Molise la mia terra, la mia casa, i miei amici
Sono invecchiati
Molise, Molise, Molise puozz’esse accise
Se di notte mi incontri davanti a Santa Maria
E mi senti cantare qualche vecchia canzone
Non pensare che è un sogno
Perché vivo lontano
Non pensare che la colpa è del vino che è buono,
Molise mio, sono io che non me ne sono andato mai,
io che non ti ho lasciato mai, io.

Sei mai stato in Molise?
Il Molise due giorni di sole…

“Quando sei arrivato, quando te ne vai?”
“Quando sei arrivato, quando te ne vai?”
“Quando sei arrivato, quando te ne vai?”
“Quando sei arrivato, quando te ne vai?”
“Quando sei arrivato, quando te ne vai?”

Molise puozz’esse accise
Molise puozz’esse accise
Molise puozz’esse accise
Molise puozz’esse accise

Fred Bongusto (Alfredo Buongusto) nasce a Campobasso il 06 Aprile 1935 da mamma veneta e papà partenopeo. Frequenta il liceo classico “Mario Pagano” ed ottenuta la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Modena. Parallelamente allo studio si dedica con passione alla musica, cantando e componendo canzoni e agli inizi degli anni ’60, il desiderio di lasciare la provincia (sono gli anni del film “Il sorpasso”), lo porta a scegliere una città del nord, dove inizia la sua attività di “musicista di night club”. E’ l’epoca dei favolosi night ed è li che incontra artisti del momento come Bruno Martino e Peppino di Capri.
Sempre in quegli anni Fred inizia i suoi primi rapporti con la discografia e nascono brani come doce doce e Frida, viene definito cantante intimista e le sue canzoni sono romantiche e sognanti. Ma è nel 1964 che si afferma al grande pubblico con Amore fermati, sigla di un programma televisivo di Gorni Kramer che lo fa entrare nelle case degli italiani. Partecipa quindi al festival di Napoli, città che ama e dove è accolto con grande affetto.
Sempre nello stesso anno partecipa a “Un Disco per l’Estate” dove presenta il brano Una rotonda sul mare che ottiene un tale successo da diventare una delle canzoni più amate ed evocative della musica italiana degli anni ’60.
Nel 1966 torna a “Un disco per l’estate” e vince con Prima c’eri tu rinsaldando la sua fama e riscuotendo un sempre crescente apprezzamento del pubblico.
E così Fred, imponendosi con il suo personalissimo ed inconfondibile stile, diventa “l’amico del sogno italiano” con canzoni “simbolo” come La mia estate con te, Spaghetti a Detroit, Tre settimane da raccontare, Malaga ed altre ancora.
Verso la fine degli anni Sessanta scopre per caso di essere in classifica in Brasile e allora forte delle esperienze sudamericane acquisite nei fumosi night, con la chitarra che batte nuovi ritmi, va ad incontrare i grandi Vinicius De Moraes, Tom Jobim e Joao Jilberto, quest’ultimo gli incide Malaga. Sono tante le tournée in Brasile ed Argentina, ma Fred ama anche la musica degli Stati Uniti e realizza diversi lavori con la collaborazione di grandi musicisti ed arrangiatori tra i quali Don Costa.
Negli anni Settanta, la sua produzione non conosce sosta, interpreta inoltre due sigle di grande successo: Quando mi dici così con Minnie Minoprio e Petrosino dell’omonimo film tv. Il suo nuovo look, capelli lunghi sul collo e basettoni, fa nascere l’appellativo di “ bel tenebroso”. Nella prima metà degli anni Ottanta sono ancora le tournée in Sud America ad assorbire molto del suo lavoro, specialmente in Brasile, dove in quel periodo medita di trasferirsi. Nel 1989 torna al Festival di Sanremo con il brano ……… Nel 1992 realizza una tournée in Italia con Toquinho che ricambia in Brasile alcuni anni dopo nel Novembre del 1996 e sempre nel 1996
Un capitolo a parte merita la sua attività, meno nota ma di grande prestigio, di compositore di colonne sonore. “Matrimonio all’italiana”, “Malizia”, “Venga a prendere il caffè da noi”, “La cicala”, fino al più recente “Kamikazen” di Gabriele Salvatores, sono alcuni dei film per i quali ha realizzato le musiche.
Il 2 giugno 2005, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ora ex-predisente della Repubblica, ha nominato Fred Bongusto Commendatore.

sabato 28 aprile 2007

UNA STORIA DISONESTA



Si discuteva dei problemi dello stato
si andò a finire sull'hascish legalizzato
che casa mia pareva quasi il parlamento
erano in 15 ma mi parevan 100.
Io che dicevo "Beh ragazzi andiamo piano
il vizio non è stato mai un partito sano".
E il più ribelle mi rispose un po' stonato
e in canzonetta lui polemizzò così:

"Che bello
due amici una chitarra e lo spinello
e una ragazza giusta che ci sta
e tutto il resto che importanza ha?
che bello
se piove porteremo anche l'ombrello
in giro per le vie della città
per due boccate di felicità".

"Ma l'opinione - dissi io - non la contate?
e che reputazione, dite un pò, vi fate?
la gente giudica voi state un po' in campana
ma quello invece di ascoltarmi continuò:

"Che bello
col pakistano nero e con l'ombrello
e una ragazza giusta che ci sta
e tutto il resto che importanza ha?"

Così di casa li cacciai senza ritegno
senza badare a chi mi palesava sdegno
li accompagnai per strada e chiuso ogni sportello
tornai in cucina e tra i barattoli uno che....

"Che bello
col giradischi acceso e lo spinello
non sarà stato giusto si lo so
ma in 15 eravamo troppi o no?".
E questa
amici miei è una storia disonesta
e puoi cambiarci i personaggi ma
quanta politica ci puoi trovar

STEFANO ROSSO
Un "personaggio" atipico nel panorama della canzone d'autore italiano. Cantautore? Strumentista? Difficile definirlo. Canta con la erre moscia canzoni ironiche ma anche autobiografiche. Nelle sue canzoni si parla della nostra Italia ma anche di America, di rapporti con le donne ma anche di se stessi, a volte con amenità, sempre con l’arguzia da trasteverino puro. Stefano Rosso suona inoltre la chitarra da consumato strumentista, in perfetto stile finger-picking. Negli ultimi tempi, è riuscito raramente a registrare dischi e la sua popolarità si è un pò ridotta, ma il pubblico che lo apprezza gli è da sempre fedele. Nella seconda metà degli anni Settanta ha avuto un momento di considerevole popolarità con Una storia disonesta, forse la prima canzone italiana in cui fa capolino lo spinello, che era un po’ il ritratto divertito del fricchettone post-sessantottino. Nato a Roma, vive a Trastevere, in via della Scala, che ha immortalato nella canzone autobiografica Letto 26. Il cognome, Rosso, è fittizio, il suo è il più comune d’Italia (Rossi), ma il suo modo di comporre è assai originale, ciò gli viene dal linguaggio e dalla prospettiva sbilenca, furtiva in cui si pone per osservare e vivere il quotidiano. Con una voce tranquilla e colloquiale, la erre moscia, l’intonazione da vecchio amico, romanesca e ciondolante al punto giusto, Stefano Rosso ha collezionato diversi album, forse con un pò di discontinuità, trovando però spunti saporiti sparsi con poca cura. La filosofia di vita, l’afflato esistenziale resta fuori dallo studio di registrazione, compare invece nelle sue canzoni una simpatia naturale, giocata sul realismo rapido, il lazzo è sempre pronto e la battuta a raffica. Predilige melodie semplici e strumenti che abbozzano invece di tagliare l’ambiente. Eppure si sorride ascoltando i suoi dischi, non solo masticando l’ironia spessa, ma cogliendo pure le parodie indecise tra il graffio velenoso e la dissacrazione in punta di piedi. Dopo Una storia disonesta e ... E allora senti cosa fo, che ottengono una buona affermazione commerciale, nel ‘79 incide Bioradiografie, l’ultimo album per la RCA, , che scatena la sua ira e il malcontento, perchè è praticamente boicottato dalla casa discografica. Nel 1980, partecipa al Festival di Sanremo con il brano L'italiano, contenuto nel disco Io e il signor Rosso, pubblicato da una nuova casa discografica, la Ciao record. Negli anni '80 incide cinque dischi, poco conosciuti, anche perchè mal distribuiti. Nel 1997, la sua nuova uscita discografica, Miracolo italiano, un'antologia contenente tre nuovi brani. Incide poi per la DV More Il meglio, che contiene i suoi maggiori successi, re-interpretati e alcuni nuovi brani. Contiene anche Preghiera, fino ad allora incisa soltanto da Mia Martini nel disco Che vuoi che sia... se t'ho aspettato tanto, del 1976.

INVESTIGATION ABOUT ONTOLOGY: MACCHIAGODENA IL PAESE DOVE NON SI MUORE MAI

Può un intero paese diventare immortale?

Il progetto IO (Investigation about Ontology) nasce in primo luogo con lo scopo di rendere Macchiagodena il comune dove non si muore mai.
L'immortalità propiamente data dalla fotografia e l'assenza (quella Barthiana, che scaturisce dal mezzo) saranno i temi attorno al quale sviluppare un percorso.
Cominceremo una ricerca partendo dalle foto di Frank Monaco.
La ricerca si muove con una indagine etnografica che ha come spunto iniziale i soggetti della fotografie di Frank Monaco e culmina con una nuova azione fotografica che immortaler tutti i cittadini del piccolo borgo molisano.
Saranno organizzati workshop e tavole rotonde.
Laboratori di pensieri, i Workshop tecnico-creativi e seminari sul video e la fotografia costituiscono la base del progetto ed il punto di partenza per la produzione di progetti audiovisivi. L'analisi e la teoria amplificano lo studio del linguaggio e della tecnica.
Artisti, fotografi, videomaker, musicisti, performers
sono invitati a partecipare alla manifestazione ed a contribuire alla creazione di contenuti, sviluppando attraverso il loro mezzo espressivo i temi dell'assenza e dell'immortalità.
L'arte contemporanea con le sue forme espressive realizza l'unione di due mondi, arcaico e contemporaneo, solitamente distanti, ma che uniti creano una dimensione fantastica.

TCT
La televisione come testimonianza e come primo canale di attuazione del progetto. I tubi catodici delle case del borgo segneranno il passo della ricerca.
Il docufilm di fine progetto un altro tassello verso la costituzione del futuro CRAC (centro di ricerca sulle arti contemporanee) del Molise.

www.ioproject.eu

venerdì 27 aprile 2007

A ME MI PIACE VIVERE ALLA GRANDE



Guglielmo ha un reggipetto
che se lo mette spesso nel cuore della notte
come se fosse adesso.

Adesso che Gesù ha un clan di menestrelli
che parte dai blue jeans e arriva a Zeffirelli
e tu mi vieni a dire che adesso vuoi morire per amore.

Ho un nano nel cervello, un ictus cerebrale,
bagni di candeggina, voglio sentirmi uguale
uguale a un gatto rosa per essere sporcato
e raccontare a tutti che sono immacolato
e tu mi vieni a dire che adesso vuoi morire
per amore.

A me mi piace vivere alla grande già
girare tra le favole in mutande ma
il principe dormiva, la strega si è arrabbiata
e nei tuoi occhi verdi quella lacrima è spuntata.

A me mi piace vivere alla grande già
girare tra le favole in mutande ma
il principe dormiva, la strega si è arrabbiata
e nei tuoi occhi verdi quella lacrima è spuntata.

E il padre di mia moglie
mi aveva sempre detto
portala dove vuoi ma non portarla a letto,
a letto dove dormo, dove se posso sogno,
dove non so capire se ho voglia o se ho bisogno
e tu mi vieni a dire che adesso vuoi morire
per amore !

A me mi piace vivere alla grande già
girare tra le favole in mutande ma
il principe dormiva, la strega si è arrabbiata
e nei tuoi occhi verdi quella lacrima è spuntata.

A me mi piace vivere alla grande già
girare tra le favole in mutande ma
il principe dormiva, la strega si è arrabbiata
e nei tuoi occhi verdi quella lacrima è spuntata.

Franco Fanigliulo
Nato nel 1944, Fanigliulo era figlio di un ufficiale della Marina e di una pianista. Dopo aver fatto il taglialegna, il garzone di bottega, il contadino ed il rappresentante di prodotti di bellezza, era stato messo sotto contratto dall'etichetta 'L'ascolto' di Caterina Caselli. Dopo la breve popolarità di Sanremo 1979, si era comperato una fattoria a Prati di Vezzano, dove allevava polli, pecore e cavalli. Un'emorragia cerebrale lo colse a 45 anni nel giugno 1989 quando stava lavorando ad un long playing dal titolo 'Sudo ma godo', per il quale si erano mobilitati Vasco Rossi come produttore e Maurizio Solieri come chitarrista. Altro grande amico di questo cantautore sottovalutato fu Zucchero, che aveva collaborato a un suo album: parlando del brano 'Madre dolcissima' Zucchero ammise che era nato da un periodo di depressione, causato anche dalla scomparsa di Fanigliulo. mi

LE MECAP AI PIEDI


Roma, Primavalle, un giorno qualsiasi della secondà metà degli anni 70. Si scendeva in strada il prima possibile, la scuola per quelli del primo turno finiva alle 13.30, un boccone veloce a casa con la solita minestra e via giù in strada. La mamma strillava un po', ma era impossibile fermarmi. Si scendeva sotto casa, si trovava un pallone si facevano due squadre che non erano mai pari, c'era sempre uno in più ma la partita iniziava.

Il proprietario del pallone giocava sempre, anche se era una pippa. Il pallone era sempre di una pippa. Il campo a dir il vero non era un granché, in fondo era solo una strada cieca di 60 metri di lunghezza per 10 di larghezza con tutti i trabocchetti possibili: macchine parcheggiate, buche, inferriate con spunzoni, filo spinato, saracinesche di garage, portoni con i vetri e finestre dei mezzanini sempre a rischio. E poi c'erano i vari proprietari, che non erano molto felici delle nostre partite. Una vera divisa sportiva non esisteva, si scendeva con una maglietta bianca i jeans o i calzoni e i mocassini. D'inverno si era costretti al maglioncino girocollo di lana super-aderente che finiva per soffocarti di sudore.

Il pallone quando andava di lusso era un Tango Dirceu o un SuperSantos, ma il più delle volte si giocava con il SuperTele che andava dove voleva lui e se ti ci sedevi sopra lo ovalizzavi all'istante. Ma si giocava sempre. Non c'era pioggia o caldo che ci fermava, non c'erano mamme o nonne che potevano influire sugli orari delle sulle nostre partite, non esisteva nessun Sor Gigetto che poteva fermarci bucandoci un pallone o il Sor Oreste che andava a protestare dalle nostre madri. Solo l'oscurita poteva far finire la partita.

A volte nelle giornate calde dell'estate si interrompeva la partita per andare dal vini & olii a prendere un bel bicchiere di spuma bianca, e nessuna partita poteva finire in pareggio: in qualche modo si doveva concludere e quando scendevano le tenebre. Anche se si stava 32 a 2, c'era sempre qualcono che diceva: "chi fa questo ha vinto".

Tornati a casa, il problema non era che non si erano fatti i compiti, ma l'integrità del nostro vestiario. Buchi ai calzoni o alla suola dei mocassini erano veri e propri drammi. Io temevo tantissimo le scarpe rotte, ne rompevo in continuazione e quando andavo a comprare le scarpe nuove con mia madre mi sentivo sempre in colpa sentendola borbottare "non ce se arriva più". E poi per un po' di giorni non giocavo, ma il richiamo della foresta era fortissimo e un paio di sberle in fondo passano presto.

Acciarini di noi era il più matto, quando il pallone andava su qualche balcone o tetto era sempre il primo ad arrampicarsi, se gli capitava un pallone rimbalzante scaricava sempre una bordata micidiale. Ha bucato centinaia di palloni e rotto decine di vetri, tanto lui era il più fico e giocava sempre, quando il Sor Gigetto ci correva dietro per mollarci qualche sberla era il più veloce e nessuno lo ha mai preso.

Acciarini un giorno comparve al campetto con le Mecap, azzurre con due bande laterali gialle e una para di gomma bianca con la quale si scivolava sempre, ma non era un difetto in un campetto di periferia. Acciarini faceva delle scivolate meravigliose e sempre ti arrivava addosso togliendoti la palla; in fondo chi non si prendeva il rischio della scivolata era considerato un fighetto o di seconda fascia e se non aveva il pallone spesso non giocava.

Ci innamorammo immediatamente di quelle strane scarpe: in pochi giorni comparvero ai piedi di Fazzoletto, Romoletto, Blocco e Fischio che era così mingherlino che quel suolone di gomma pareva che gli arrivasse alle ascelle. Poi erano tremendamente economiche anche se non duravano niente. In realtà bisogna dire non duravano che niente intere, ma con profonde incollature Blocco ci ha fatto tutte le medie con un solo paio di scarpe.

Mia madre mi diceva che quelle scarpe facevano schifo e non me le voleva comprare, ma io avevo l'incubo dei mocassini, e poi ero rimasto l'ultimo a non averle. Un giorno la convinsi ad andarle a vedere a via Boccea, nella zona dei negozi. Prendemmo l'autobus il 46, mia madre mi diceva con insistenza che tanto non me le comprava, ma per me era una vittoria portarla al negozio e non badavo a niente.

Alla fermata del carcere militare di via Boccea salirono due bambini con delle Mecap fiammanti. Erano bellissime, ma molto più belle delle Adidas o delle Puma che avevo sempre desiderato, e poi come diceva Acciarini si tiravano delle cannate che neanche ti puoi immaginare, ed per un tiro ben assestato vale la pena avere i piedi sempre umidi e puzzolenti.

Il puzzo di quelle scarpe era inconfondibile, non era possibile tenerle in casa ma si mettevano in balcone. Tutti i balconi del mio quartiere ne avevano un paio esposto. Una delle battute ricorrenti che dicevamo a Ciccio che aveva l'alito pesante era: Ma che te sei magnato un ragazzino co le Mecap?. In fondo questo era un piccolo difettuccio che era bene tacere a mia madre.

Scendemmo dall'autobus e attraversammo la strada: nella vetrina del negozio troneggiavano diverse paia di Mecap in mezzo ad un mare di mocassini di tutti i tipi e colori. Quando entrammo nel negozio insistetti a lungo per provarle e la spuntai. Ricordo ancora la calda sensazione di avere ai piedi quel mostruoso pezzo di plastica, non erano molto comode ma il gommone ti dava una importanza ed una senzazione di stabilità incredibile. Le cuciture della tomaia erano un po' rabberciate e per questo i primi giorni facevano sempre qualche bolla, ma poi passava, e il gommone con il tempo si vulcanizava e diventava viscido come il dorso di un'anguilla.

Ma questi erano solo effetti collaterali. Quando mia madre vide il prezzo delle scarpe si convinse rapidamente che in fondo per un ragazzino della mia età avere i piedi nei mocassini di cuoio non era una priorità della vita e me le comprò.

Non ricordo quanto durarono ma sicuramente poco, e neanche se poi ne comprai altri paia: ricordo solo che con le Mecap ai piedi uscii dall'incubo di distruggere un bello e sano paio di mocassini.

Per PAGINE 70
Fabrizio Fontana*
www.novamag.it


*Fabrizio Fontana, 43 anni, nato e cresciuto a Primavalle, nella perferia romana, avrebbe un passato da calciatore, se un un ginocchio e la sorte non gli avessero interrotto la carriera. Oggi invece fa il dirigente in una multinazionale e ogni tanto sogna di tornare in campo.

giovedì 26 aprile 2007

L'ULTIMA CARICA



Sulle gesta della Banda Vardarelli è utile ricordare che nel 1963 è stato girato un film, per la regia di Leopoldo Savona, intitolato "L'ultima carica". Ovviamente la trama è lontanissima da fatti realmente accaduti e raccontati dal Masciotta. Il cast vedeva Marco Morandi, Benito Stefanelli, Amedeo Trilli, Renato Terra, Aldo Bufi Landi, Anna Maria Surdo, Barbara Nelli (Fiamma, Oreste Lionello, Haya Harareet (Claudia), Giacomo Furia, Arturo Dominici, Franco Balducci, Tony Russell (Rocco Vardarelli). Produzione TELEFILM INTERNATIONAL Distribuzione TITANUS. Tra gli sceneggiatori anche Bruno Corbucci.

La trama (da www.cinematografo.com):
Durante l'occupazione napoleonica in Italia, Rocco Vardarelli, mezzo brigante e mezzo patriota, tenta di fermare una banda per liberare il suo paese dalle truppe che lo taglieggiano. Mentre si reca da Fiamma, la sua ragazza, Rocco conosce Claudia, una bella aristocratica che viaggia con il governatore, e se ne innamora. Claudia ricambia il suo amore, ma poiché lo consiglia di mettersi agli ordini proprio di quel governatore che si è arricchito sfruttando gli abitanti del paese, Rocco rifiuta e torna da Fiamma e dai suoi compagni. Mentre il giovane studia la situazione, le truppe borboniche attaccano e distruggono Itri che si è ribellata ai loro soprusi. Rocco decide quindi di combattere con ogni mezzo le forze del governatore. Il giovane ha intanto rivisto Claudia e l'amore fra i due si riaccende. Ma durante un appuntamento segreto le truppe del governatore irrompono ed arrestano Rocco che si crede tradito dalla ragazza. Sarà invece lei, a prezzo della sua vita, che riuscirà a liberarlo. Rocco si pone quindi alla testa dei suoi fidi e vince la sua causa con un'ultima disperata battaglia.

mercoledì 25 aprile 2007

SIAMO I RIBELLI DELLA MONTAGNA

ORA E SEMPRE 25 APRILE



Dalle belle città date al nemico
fuggimmo un dì su per l'aride montagne,
cercando libertà tra rupe e rupe,
contro la schiavitù del suol tradito.

Lasciammo case, scuole ed officine,
mutammo in caserme le vecchie cascine,
armammo le mani di bombe e mitraglia,
temprammo i muscoli ed i cuori in battaglia.

Siamo i ribelli della montagna,
viviam di stenti e di patimenti,
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir.

Di giustizia è la nostra disciplina,
libertà è l'idea che ci avvicina,
rosso sangue è il color della bandiera
partigian della folta e ardente schiera.

Sulle strade dal nemico assediate
lasciammo talvolta le carni straziate.
sentimmo l'ardor per la grande riscossa,
sentimmo l'amor per la patria nostra.

Siamo i ribelli della montagna...


Dalle belle città (Siamo i ribelli della montagna), venne composta nel marzo del 1944 sull'Appennino ligure-piemontese, nella zona del Monte Tobbio, dai partigiani del 5° distaccamento della III Brigata Garibaldi "Liguria" dislocati alla cascina Grilla con il comandante Emilio Casalini "Cini".

lunedì 23 aprile 2007

LA BANDA VARDARELLI: IL MUCCHIO SELVAGGIO SCUOTE IL MOLISE



Tratto da Il Molise dalle origini ai nostri giorni
Giambattista Masciotta
Volume Quarto
Il Circondario di Larino
Famiglie e Persone giuridiche ch'ebbero dominio nello circoscrizione attuale del Molise - Città, borghi, casali distrutti, feudi e Frazioni comunali del Molise

CAVA DEI TIRRENI Arti Grafiche Ditta E. DI MAURO 1952
RISTAMPA CAMPOBASSO Tipolitografia LAMPO EDITRICE 1985


LA NASCITA
La strage dei Vardarelli - La data del 9 aprile 1818, se riguarda direttamente Ururi, interessa non meno direttamente la storia del Reame, ricordandone un episodio tristissimo, che attesta in pari tempo a qual punto fosse discesa la valutazione della vita umana, e come caduta nel fango la dignità dello Stato. Gli storici, dal Colletta in poi, non danno del sanguinoso evento che cenni sommarii, confusi, erronei, ed affatto inadeguati alla sua reale entità. Non sarà perciò superfluo indugiarci nella narrazione di esso, facendo tesoro delle tradizioni locali ancor fresche, e delle notizie consegnate in pubblici documenti del tempo. Gaetano Meomartino (non de Martino come parecchi scrivono di coloro che trattano di lui) era nato in Celenza Valfortore il 13 gennaio 1780 da Pietro, del luogo, e Donata Iannantuono da S. Marco la Catola; e domiciliava in Castelnuovo della Daunia quando per le coscrizioni murattiste fu chiamato nelle file dell'esercito.

LA PRIMA FUGA IN SICILIA
Giovane di torbido animo, manesco, indisciplinato, anelante ad elevarsi in condizione sociale per desiderio di ozii beati, non per coscienza di possedere i meriti o i requisiti all'ascesa, dopo qualche tempo ch'era sotto alle armi disertò la bandiera e riparò in Sicilia, dove la Corte borbonica accoglieva benevolmente tutti i profughi continentali, senza indagarne le origini, e senza soverchiamente preoccuparsi dei motivi e delle aspirazioni che li avessero sospinti ad esulare. L'aria della Sicilia non fu propizia al disertore; ed egli, invero, dopo qualche anno di permanenza colà sotto la bandiera legittimista, dovè fuggirne per evitare la galera.

IL SANFEDISTA
Tornato di nascosto in Capitanata, avrebbe potuto chiedere perdono, o procurarsi un indulto al reato di diserzione; preferì, invece, di mettersi alla testa di una numerosa comitiva di malviventi montata su buoni cavalli, fornita delle migliori armi del tempo e battere le patrie campagne. Quel mestiere lo allettava. Egli, smanioso d'impero, diveniva finalmente capo di una qualche cosa: e il dar guai alla "occupazione francese" lo avrebbe tornato in grazia presso il governo borbonico, che nella coscienza pubblica era destinato ad una prossima restaurazione nei dominii di terraferma. La polizia si mise in moto per irretire la banda: milizie scelte furono spedite per affrontarla e farne macello; ma la banda non affrontò il nemico: si sciolse misteriosamente come misteriosamente si era formata, e il Meomartino trovò scampo di bel nuovo in Sicilia, dove come egli aveva presentito furono per lui ottimi requisiti al perdono dei suoi precedenti delitti, i delitti recenti consumati al di qua del Foro, i quali rivestivano così egli asseriva un esclusivo carattere d'opposizione contro l'usurpatore. Gaetano Meomartino venne reintegrato nell'esercito, e nominato Sergente nel Corpo delle Guardie.

LA BANDA DEI VARDARELLI
La restaurazione del 1815 lo ricondusse a Napoli; sennonchè scrive il Colletta "non pago di mediocre fortuna e di posato vivere, cercando il malo ingegno opulenza e cimenti, disertò nell'anno istesso, e si diede a scorrere, pubblico ladro, le campagne" ( 397 ). Ricollegati i seguaci fedeli della prima incarnazione, ed aumentatili di numero, egli, a capo d'una cinquantina d'uomini messi in sott'ordine dei propri fratelli Giovanni e Geremia sparse il terrore nelle masserie e negli abitati, ed acquistò in brev'ora funesta rinomanza di coraggio temerario e di potenza indomabile nell'intera Capitanata. Era invocato dai poveri contro gli abusi e le prepotenze dei ricchi: ed egli accorreva prontamente e faceva vendetta, riservando a sè ed ai suoi la parte leonina delle spoglie. Il nome dei Vardarelli come generalmente era chiamata la banda divenne popolare, suscitando paure e dedizioni, reverenza ed ossequio.
Che cosa esprimeva quel nomignolo? Nulla di male. Il padre dei Meomartino esercitava il mestiere di "vardaro", ossia costruttore di basti e selle speciali per asini e muli; e i figli del "vardaro" erano i "vardarielli" e cioè piccoli vardari (398). Il governo, impressionato del crescente e sinistro ascendente che i Vardarelli acquisivano sempre più sulle masse rurali, e dovendo pur dare qualche soddisfazione alla gente per bene che pagava le imposte e non si vedeva tutelata nei propri diritti e nella propria libertà sociale, mise in atto tutti i mezzi per distruggerli; ma la caccia fu inane, poichè la selvaggina scansava ogni ostacolo e sfuggiva a qualunque insidia.

IL CARBONARO
Gaetano Meomartino era ascritto alla Carboneria e rivestiva un grado nella formidabile setta; onde riusciva a sapere, in precedenza all'esecuzione, gli ordini spiccati contro di lui, e perfino le misure che erano allo studio o in via di maturazione. Fra i suoi occulti protettori vi erano cittadini d'ogni classe sociale, funzionarii governativi, magistrati perfino; e quindi, o per ispirito settario, o per tema, o per interesse, o per altri ignobili motivi, una fitta rete d'informatori favoriva il bandito, tutti in gara a prevenirlo dei progetti e delle disposizioni dell'Autorità costituita.

IL GOVERNO BORBONICO TRATTA
Il governo, seccato della figura barbina a cui da tanti mesi vedevasi esposto, e sopraffatto dalla sfiducia di poter restaurare la pubblica tranquillità nella grossa e grassa provincia, pensò di venire a patti con quelli che avrebbe dovuto unicamente sopprimere. Comprendeva bene che l'opinione pubblica dei ceti colti gli sarebbe stata ostile; ma prevedeva che le masse popolari, che non vanno pel sottile, avrebbero vista di buon occhio la cosa, anelanti com'erano di recuperare la quiete perduta. E così dopo lungo e formale e travagliato patteggiare fra Governo e briganti comuni, da pari a pari un R. D. del 6 luglio 1817 concedeva perdono ed oblio ai misfatti della comitiva brigantesca: e questa veniva trasformata in "Squadriglia autonoma di armigeri", sottoposta agli ordini dei Generali comandanti delle provincie, assegnando lo stipendio mensile di 30 ducati ai militi, di 45 ducati a ciascuno dei germani del Capo, e di 90 ducati al Capo: Gaetano Meomartino. La storia civile dei popoli non ricordava nulla di consimile in niun tempo, nè luogo: ma alla piccioletta anima del Ministro di Polizia il marchese Luigi de' Medici parve forse, la trovata, degna della più alta mente d'uomo di Stato.

CONTRACTORS ANTE LITTERAM
I Vardarelli della seconda edizione spensero, in verità, tutti i malviventi della Capitanata; ma serbandosi guardinghi nei loro personali rapporti con le Autorità dello Stato, per l'intima tema di eventuali tradimenti. Essi comprendevano la stranezza della propria situazione giuridica e morale: comprendevano che il Governo non aveva potuto scendere alla bassezza di patteggiare con loro, senza il fine recondito di perderli con la fiducia e lo stipendio, se non aveva potuto perderli con la legge e col piombo. Il Governo centrale, in realtà, poteva redimersi dall'onta che avevalo colpito pel vergognoso Decreto canicolare, unicamente ricorrendo ad un gesto di stile borgiano: e correva voce che covasse insidie contro i suoi novelli e specialissimi funzionarii. Non riusciva, peraltro, a trovare un ceffo capace di tentare una minima impresa contro il Meomartino e i suoi.

IL CASO
Fortuite circostanze, estranee alle macchinazioni ufficiali, precipitarono gli avvenimenti, favorendo le vedute governative ed abbattendo l'uomo che pareva invulnerabile, e che aveva dato prova della propria abilità svignandosela da accerchiamenti di numerose soldatesche, e deludendo i trabocchetti di una polizia celeberrima per allenamento e fecondità di risorse.

UNA FAIDA NEL MOLISE
Gaetano Meomartino soleva fare in Ururi frequenti soste più o meno necessarie agli scopi pei quali era stipendiato; e Ururi, da venti anni, era dolorosamente travagliata dalla discordia di due cospicue famiglie: gli Occhionero e i Grimani. La discordia come vogliono le tradizioni si riconnetteva al vecchio motivo del "cherchez la femme". Nicola Grimani aveva ospitato in casa propria, nel 1799, il comandante delle truppe francesi di passaggio: il quale avendo visto al balcone della casa dirimpetto una bella signora, domandò all'ospite chi fosse, ed espresse il desiderio di volerla ossequiare. Seppe ch'era una signora Occhionero, ed appena n'ebbe il tempo si recò a farle visita. Il marito fu adulato dall'atto cortese del comandante; ma quando costui chiese di poter fare i propri omaggi alla signora, rispose che ciò non era nelle consuetudini paesane, ed egli non poteva derogare. L'ufficiale insistè nella richiesta: insistè nel rifiuto il marito; finchè dalle cortesie trascesi a parole dure, e da queste all'alterco, l'alterco ebbe termine con uno schiaffo all'Occhionero. Nell'animo dell'oltraggiato sorse ed ingrossò poi il sospetto che il Grimani avesse suggerita la visita al manesco comandante, donde nacque un livore che per oltre mezzo secolo perdurò, alimentato scambievolmente e tenuto desto con aggressioni, incendi, abigeati, calunnie, appostamenti, assassinii, e tutto ciò che le passioni più cieche possono ideare ed il braccio eseguire.

IL MUCCHIO SELVAGGIO
I fratelli Meomartino nel corso di questa lenta tragedia di rivalità avevano una volta ucciso trecento suini nella masseria dei Grimani; una seconda volta ottanta vaccine; una terza date al fuoco estesissime messi; ed un'ultima, entrati in casa loro, legati gli uomini in modo da renderli inabili ad ogni offensiva, avevano sfogata la propria libidine sulle donne a vista di quelli. I Grimani giurarono di vendicarsi: e si abboccarono con Nicola Campofreda di Portocannone per concertare la vendetta e fare la pelle ai Vardarelli.

IL TRADIMENTO DI URURI
Gli Occhionero sapevano che i Grimani li ritenevano istigatori dei danni e delle onte causate loro dai Vardarelli, ed avevano avuto sentore che qualche colpo contro costoro si stesse preparando. Emanuele Occhionero, però, quantunque compare di Gaetano Meomartino, che gli aveva battezzata la figlia Giacinta, nulla sussurrò al compare, e si rese quasi complice dei propri nemici per isbarazzarsene pur lui. Pare che fosse fastidito delle frequenti e lunghe visite che il Meomartino gli faceva, e delle quali i nemici sparlavano dipingendo lui Occhionero quale manutengolo, ricettatore, e marito paziente.

LA MORTE DI GAETANO MEO MARTINO
La tradizione vuole che il 9 aprile 1818, Emanuele suggerisse egli stesso a Gaetano di passare una rivista della Squadriglia nella piazza, dinanzi la casa dei Grimani; e che, appena i militi furono pronti e Gaetano uscito di sua casa, egli sbarrasse l'uscio per ogni buon fine. Gaetano Meomartino e i due fratelli andarono verso i militi disposti in fila nel Largo della Porta (al presente Piazza Vardarelli), compiendo con sussiego quelle modalità di parata in uso presso le truppe regolari. Ad un tratto rintrona un colpo di moschetto, un secondo, un terzo... poi una scarica di fucileria... seguita da una fuga generale di pedoni e cavalli... poi un silenzio di tomba. Sette cadaveri crivellati di ferite giacevano in pozze di sangue nella piazza sterrata. Furono identificati per Gaetano, Giovanni. e Geremia Meomartino, Serafino Viola di Portocannone, Carlo Tosto di Torremaggiore, Domenico di Furia da Panni (Avellino), Tommaso Sanpoli di Pietracatella.

I DOCUMENTI UFFICIALI
Il Sindaco di Ururi spedì al Sottintendente di Larino il seguente rapporto "ad usum Delphini": in opposizione cioè alla realtà degli avvenimenti quale noi abbiamo or ora esposta:
"Ururi, 9 aprile 1818 "Sig. Sotto - Intendente,
"Ieri che si contavano li 8 di questo aprile, essendo giunta la Compagnia del sig. De Martino (sic), dopo di essere stati tutti bene alloggiati, han cominciato a mettersi sossopra, prendendo occasione che l'avena, che doveva somministrarsi per i loro cavalli, era di cattiva qualità, non ostante che esso suddetto de Martino, con sue lettere preventive, che qui si conservano, aveva ordinato che io avessi tenuto pronta detta avena per i suoi cavalli. "Conoscendo dunque che costoro erano qui giunti male intenzionati, ho cercato ogni mezzo di capacitarli coll'essere andato io di persona per il paese questuando orzo e contentarli. Finalmente capacitatili con le mie dolci maniere, jeri sera mi è riuscito mantenere la tranquillità; ma perchè nella passata notte non solamente tutti han cercato di maltrattare la cittadinanza, e con domandare spese di vitto fuori dell'ordinano e col toccare la stima di alcune famiglie, cos“ con l'occasione d'essersi qui trovata esistente (sic) la colonna Mobile sotto il comando del signor D. Nicola Campofreda" ( 399 ), questi volendo questa mattina compatire la cittadinanza maltrattata, "venne in altercazione con l'intiera compagnia del suddetto De Martino, il quale, si lui "che i suoi fratelli, avendo cominciato a far fuoco, tanto essi che i loro compagni sia contro della compagnia del suddetto signor Campofreda che contro questa popolazione, quali per non restar vittime del loro furore, si posero tutti alla difesa, formando un fatto d'armi il più strepitoso che mai possa credersi, dentro del quale restarono morti tutti 3 i fratelli de Martino, un tale per nome Serafino Viola, molti altri fuggiti gravemente feriti, ed altri morti, che non ancora mi  riuscito di sapere chi siano, riserbandomi di darvi con altra mia più distinto e chiaro rapporto, giacchè ora mi trovo nella massima confusione.

"Compiacetevi di passarne subito avviso a' legittimi Superiori, affinchè questa povera infelice popolazione non abbia a soffrire qualche sinistro avvenimento, non essendo in menoma parte colpevole di cosa alcuna, compiacendovi ancora farmi sapere se i cadaveri possono seppellirsi o debbono riconoscersi e formarne le debite carte, prevenendovi di ritrovarsene uno ferito, che vi compiacerete ordinarmi se debbo subito costˆ mandarlo.

"Il Sindaco Giovanni Musacchio"

Non sappiamo quali ordini dal Sottindente venissero emanati: certa cosa  questa, che nel Registro dello Stato civile si legge per ciascuna vittima: "é morto nella sua propria casa in Ururi", e non è da credere che il funzionario preposto a tale ufficio si fosse permessa una si palese falsità in atto pubblico se le Autorità immediate non l'avessero non dico tassativamente disposta ma suggerita o consigliata per fini di Stato che non è il caso d'indagare.

Nel Libro parrocchiale dei Defunti è scritto, invece:
"Ururi, 9 aprile 1818 "Gaetano de Martino, figlio di Pietro quondam e Donata Iannantuono, del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo,  morto ammazzato a colpi di schioppettate, in età sua di anni 40 circa, senza ricevere alcun sagramento, verso le ore 15 di detto giorno. Il suo cadavere si è seppellito nella Congregazione dei morti di questo suddetto Comune.
"Firmato "Pasquale Schiavone Economo Curato"

LA STRAGE
Della Banda scamparono alla morte, con la fuga, trentanove gregari: i quali, nonostante si fossero dispersi e dati alla latitanza, vennero chiamati in Foggia dal generale Amato Comandante della Provincia, acchè in omaggio al R. D. 6 luglio 1817 si elegessero un Capo. Essi appiedati a fianco ai cavalli nella Piazza vennero passati in rivista dal colonnello Sivo, e l'operazione fu minuziosa per guadagnar tempo. Ad un segnale del Generale, ch'era al verone del palazzo dell'Intendenza, si udi nel silenzio il grido: Arrendetevi! e immediatamente da ogni lato della piazza irruppero le milizie regolari per catturarli. I Vardarelli, malgrado l'atroce sorpresa, non si perderono d'animo, e con subito slancio rimontati in sella tentarono di aprirsi un varco alla fuga. Alcuni, più destri, vi riuscirono, e si misero in salvo: nove rimasero morti sul posto: venti, per estrema difesa, penetrarono in un vecchio edificio che conteneva una cava, e in essa precipitarono. I soldati che li inseguivano, non riuscendo a fucilarli nascosti com'erano tra i massi, gittarono nella voragine paglia ed altre materie infiammabili e diedero fuoco; e i miseri si ebbero la morte delle volpi. Questo miserando epilogo della tragedia in Ururi iniziata, sta ad attestare la bassezza dei tempi, e la compassionevole debolezza che voleva parer forza del governo dei Borboni. L'eccidio avvenuto in Ururi non fu seguito da processo. Nessuno, quivi, ebbe torto un capello. Cos“ fini la gesta dei Vardarelli.

NOTE ILLUSTRATIVE E BIBLIOGRAFICHE - 412 - (397) Opera alla nota (237), al volume II, Libro VIII, XXIX. [(237) Colletta Pietro - Storia del Reame di Napoli. (Confr. Libro Nono - cap. XXII).] (398) "Bardella" -- "Vardella" -- "Varda" -- è un arnese speciale meno elegante della sella, meno rustica e grossolana del basto comune. (399) Del Campofreda diamo la biografia nella monografia di Portocannone nel presente volume.

IL FUTURO DEL MOLISE PASSA PER LA FORMAZIONE DEI SUOI FIGLI



Piccola provocazione contro l’arcadia (sottosviluppata) molisana
di Maurizio Oriunno
dal mensile Il Bene Comune (marzo 2007)

La globalizzazione dei saperi impone oggi al sistema formativo italiano di rimediare al suo storico ritardo. Soltanto una decina di realtà pubbliche e poche private, che eccellono nel nostro sistema universitario, riescono a fornire strumenti e conoscenze adeguate per l’affermazione delle nuove generazioni in un mercato del lavoro che si è mondializzato. Riguardo all’atavico dibattito riguardante l’emigrazione dei saperi e dei mestieri dal Molise, che è determinante per influenzare gli scarsi indici di crescita di questa regione, sarebbe interessante proporre una provocazione alla classe politica molisana, partendo da un assunto.

I fondi europei e nazionali che sono piovuti sul Molise negli ultimi venti anni non hanno prodotto nulla o quasi. Sono bastati appena per la sopravvivenza delle nostre comunità, tra mille difficoltà e vertenze (l’ultima quella sul terremoto e la sanità) con i governi che si sono succeduti, e che, tranne alcune realtà del Basso Molise, sono ormai prossime alla scomparsa dalle cartine geografiche.

Il nuovo sistema infrastrutturale promesso dovrà avere il suo (lungo) corso e comunque collegherà tra venti anni (se tutto andrà per il verso giusto) zone scarsamente popolate e depauperate dalle giovani risorse. Scommettere fortemente sulla formazione per far crescere il Molise, investendo risorse finanziarie importanti del proprio bilancio per un sistema scolastico regionale capace, in termini di strutture, ricerca, innovazione ed eccellenza, di essere l’anello di congiunzione con il resto del Paese e del mondo, potrebbe essere una giusta cura per una terra che tutti diciamo di amare.

Il Molise deve riuscire a dare ai suoi figli tutte le possibilità migliori per poter emergere nel resto del pianeta, al pari dei loro coetanei americani, inglesi, tedeschi e indiani, purché l’esempio non sia quello di Pesche.

I molisani che verranno, dovranno porsi seriamente questo interrogativo: “Meglio un contratto da mille euro qui nel Molise o settemila in Australia, Arabia Saudita o Azerbaigian come tecnico, medico, manager?”

La questione già da tempo non si pone per milioni di ingegneri e medici indiani e cinesi che provengono dagli ottimi politecnici di quelle nazioni, pronti a lavorare in qualsiasi angolo del mondo e per qualunque paese del mondo a prezzi concorrenziali, sfornando eccellenti accenti e purezze linguistiche English, American English o rudezze Spanglish e Aussie, che leggono in poche ore analisi mediche e radiografie, inventano software, assemblano hardware. Le ultime notizie sulle due nazioni chiave dell’inizio di questo nuovo millennio vengono raccontate da Federico Rampini, giornalista di Repubblica e saggista di rilievo, esperto dell’Elefante indiano e del Dragone Cinese.

Nell’Inghilterra, che è stata il braccio armato di Bush nell’ultimo quinquennio e potenza mondiale, secondo Rampini: “I posti di lavoro legati alla pubblica amministrazione non sono al riparo dalla delocalizzazione. Il 70% delle attività di information technology in Gran Bretagna potrebbero essere spostate presto in India o in Cina. Lo ha detto Bill Thomas, capo della divisione europea di EDS, in un’intervista a The Daily Telegraph. Secondo il dirigente della multinazionale anche il settore pubblico è esposto a un “cambiamento drammatico” per effetto della concorrenza indiana e cinese nelle attività informatiche. EDS è una società americana con sede in Texas ed è il più grosso fornitore di servizi informatici per lo Stato inglese. Ha contratti di fornitura di servizi di lungo periodo con i ministeri della Difesa, del Lavoro e delle pensioni. Thomas ha detto che dal 60 al 70% degli 8.000 dipendenti della EDS legati alla pubblica amministrazione britannica ”non devono necessariamente essere inglesi o lavorare in Inghilterra”.

Una notizia, dunque, che dovrebbe fare rabbrividire anche il più pessimista dei politici locali. E’ chiaro che, in questo caso, la lingua è stata il velenoso ma prezioso collante naturale che ha coinvolto, in questo episodio, paesi di cultura anglosassone. E’ pur vero che trattasi di un dialogo tra giganti economici, politici e militari, tra i quali però l’Italia deve giocare un ruolo assolutamente decisivo per assicurarsi una fetta di futuro nei prossimi decenni.

Ma il Molise? Può una piccola regione oggi affine economicamente a quelle minori del Portogallo e della Grecia convogliare impegno verso un radicale e nuovo modello di sviluppo, tenendo conto di quanto accade fuori dai nostri confini?

Quale senso ha oggi programmare il futuro di questa regione come un enorme ospizio, dove continuiamo ossessivamente a ripeterci che l’aria è più o meno buona (ma è ottima anche in Slovenia, sui Pirenei e nel nord della Grecia), non c’è traffico (ma conoscete i paesi tedeschi o svedesi?) e la vita è a misura d’uomo (conosco dei paesi fiamminghi e spagnoli inimmaginabili)? Quanto ancora potrà durare questa truffa dell’Arcadia molisana?

Possiamo immaginare un sistema che spenda meno in sanità e spese accessorie della politica e della burocrazia e magari investa ingenti risorse finanziarie in formazione e ricerca, invitando fondazioni e istituti di cultura nazionali ed esteri che, nel tempo, rilascino saperi e investano conoscenza sul territorio?

Si tratta di investire su collegamenti reali e realizzabili, che vadano oltre gli approcci delle visite di cortesia di ambasciatori e consoli, dei protocolli d’intesa e di presenze imbarazzanti in programma televisivi e fiere. Nel Molise, lo scorso anno, afferma ultimamente il periodico della Confcommercio Molisana, i turisti hanno creato un valore aggiunto complessivo di soli 800.000 euro. Nello stesso periodo sono stati spesi, solo dall’ente Regione, ben 10 milioni di euro per interventi nel comparto turistico.

Un solo esempio che è calzante riguardo alla distanza geografica, storica e culturale che ci divide dal resto del mondo: l’aereoporto di Napoli Capodichino ed il porto di Napoli (nel 2006 record di traffico commerciale con 22 milioni di tonnellate di merci) dista da Campobasso soltanto 170 chilometri.

Per raggiungere il capoluogo regionale con un mezzo pubblico dall’aereoporto internazionale più vicino si impiegano dalle 3 alle 4 ore di treno (salvo ritardi o soppressioni). Stessi tempi medi per chi decide di viaggiare in autobus, ammesso che l’incauto visitatore del Molise riesca a scorgere il torpedone giusto nella follia di Piazza Garibaldi o il vagone nascosto al binario 19 della stazione.

Se sarà fortunato potrà gustarsi il tour campano molisano, che dalle prostitute nigeriane di Teano e Capua e le discariche di Marcianise, raggiunge l’anziana di Indiprete e i boschi di querce di Vinchiaturo: un viaggio fatto di fermate nel nulla, in stazioni e paesi vuoti, che eleva le anime di religiosi, poeti e letterati ma che invece, spesso, spazientisce quanti viaggiano per lavoro o chi (ed è la maggioranza della popolazione mondiale) proprio non ci riesce ad “elevarsi”.

Una corsa diretta in autobus Napoli – Campobasso (via Avellino – Benevento), senza fermate intermedie, impiegherebbe meno di due ore. Ma da Napoli, si sa, si continua a transitare solo da Venafro.

Il nostro territorio, la sua storia e le sue ricchezze, potranno emergere ed essere adeguatamente produttive quando riusciranno ad essere connesse, in modo equilibrato, ad una fitta rete di servizi alle persone e alle imprese, fortemente permeata di infrastrutture (anche telematiche) efficienti.

In altre parole, si tratta di fornire una strategicità al Molise costruita su basi reali e stimolare i giovani verso nuove e purtroppo dure consapevolezze nel campo dello studio e della formazione.

L’esperienza irlandese o spagnola è il modello da eguagliare in Europa, incidendo magari sugli aiuti reali alle imprese con servizi efficienti e personale (anche della Pubblica Amministrazione!) altamente specializzato. Così come appare di estremo interesse l’esperienza di Salvino Salvaggio, top manager di Guglionesi che gestisce il Parco Scientifico e Tecnologico del Qatar. La sua brillante storia è stata raccontata, nei giorni scorsi, in un servizio dell’ottimo Carlo D’Angelo sulle pagine telematiche di Primonumero.it. La sua testimonianza potrebbe rappresentare una sfida per quanti si affaticano a raccomandarsi al potente di turno per trovare un posto di lavoro (pur essendo laureati e specializzati) in un call center o come cassiere in supermercato (con tutta l’umano e civico rispetto per i lavoratori in questione) e di monito nei confronti della nostra classe politica perennemente a corto di strategie.

sabato 21 aprile 2007

DI DE NIRO NON NE POSSIAMO PIU'


Di De Niro non ne possiamo più
di ANTONIO RUGGIERI
dal quotidiano Primo Piano Molise

Sono di Ferrazzano. Ci sono nato e vi custodisco un patrimonio d'affetti che lavora da sempre sul versante oscuro e radicale dell'identità.
E da questo punto di vista totalmente "in causa", chiedo al Sindaco Giovanni Gianfelice, alla sua Giunta, al Consiglio comunale e ai volenterosi e appassionati cittadini che si sono adoperati per attirare l'attenzione di Roberto De Niro sul paese dei suoi bisnonni, di desistere. Ne va davvero dell'immagine e del decoro di un luogo e di una comunità che avrebbe bisogno di operazioni promozionali maggiormente progettate e organiche, più strutturali e sofisticate. La visita, come si sa, è un atto di reciproca cortesia, una cerimonia formale a seconda dei casi, che celebra un'intesa e contemporaneamente la rinnova. Si basa su una radicata e sostanziosa cultura dell'ospitalità, da noi ancora viva e palpitante. La strategia di portare De Niro a Ferrazzano in nome delle sue origini addirittura patronimiche, è diventata annosa. E' stato fatto di tutto. La solerte e appassionata Maria Assunta Baranello ha costituito un'associazione affatto casualmente intitolata "the fan", dedicata a questo scopo. Si è contattato il sarto (americano) dell'attore americano, anch'egli di origini ferrazzanesi, che qualche anno fa, in visita al suo paese d'origine (senza che nessuno avesse fatto nulla per dirottarcelo), portò con sé una videocassetta contenente una dichiarazione approssimativa di De Niro che fece il giro delle televisioni locali come fosse stata una reliquia di Padre Pio. Per arrivare alla visita di un paio d'anni fa dell'ineffabile Luca Giurato che nell'esercizio delle sue funzioni claudicanti (da più di un punto di vista), si produsse in un servizio televisivo fra il rotocalco e l'antropologia culturale, a caccia addirittura della fisiognomica "deniriana" fra la gente cortese e riservata della nostra bella Ferrazzano. Un episodio che per genere, per professionalità e sensibilità civile, si colloca (inconsapevolmente) fra "Striscia la notizia" e "Scherzi a parte". E infine la partecipazione (?) a "Domenica in" con la consegna cerimoniale delle chiavi della città alla star californiana (e sottolineo californiana), disturbata da un inatteso incursore. Insomma, una specie di "via crucis" pluriennale lungo la quale Ferrazzano e i ferrazzanesi hanno perso almeno un po' del loro decoro (oltre che della loro pazienza). Ché De Niro per ora stia a casa sua o dove diavolo lo porterà la sua luminescente attività. Se vorrà venire a Ferrazzano (e ce lo farà sapere per tempo), ci prepareremo ad accoglierlo con gli onori che si riservano ad un ospite di riguardo, com'è già accaduto in altre circostanze. Lo faremo però nella consapevolezza che la visita del grande attore (qualora egli decidesse di compierla) non rappresenterebbe la palingenesi di rinascita di un comune che ben altre, articolate, programmate e strategiche scelte dovrà compiere (quanto prima) per definire la sua identità urbanistica e territoriale, in relazione all'ormai incombente Campobasso. Il "marketing territoriale" come si dice ormai con una locuzione "scorcia e tutto" buona per le circostanze più disparate, non è un'invenzione o un colpo di teatro. E' un progetto organico e articolato che diventa produttivo perché dà dimostrazione (più efficace quanto meno esornativa) di aver saputo svolgere adeguatamente ognuna delle opzioni di sua pertinenza. John Clooney ha comprato una villa sul lago di Como e Sting abita in una fattoria in provincia d'Arezzo; eppure né l'uno né l'altro (e nessuno dei loro progenitori) è nato in quei luoghi. E' che quei territori, nel tempo, sono stati governati curando la proprietà sociale e il bene comune, al riparo dalla speculazione che depaupera quello che è di tutti, per il privilegio stolido, indicibile e trafficone di qualcuno. Il futuro di Ferrazzano si gioca sullo svolgimento di alcune evidenti vocazioni, clamorosamente sotto gli occhi di tutti. I servizi per la cultura, per l'ambiente e per il tempo libero possono rappresentare l'orditura di opportunità che definiscono, e al meglio, la fisionomia di un micromodello di sviluppo postindustriale e innovativo. Il piano di fabbricazione poi, se progettato con equilibrio e governato con dinamismo e trasparenza, può rispondere alle esigenze abitative e di servizi avanzati del Capoluogo, naturalmente senza svendere e depauperare il territorio; anzi qualificandolo.
Poi, se De Niro quando sarà comodo vorrà passare a trovarci, sarà il benvenuto.