lunedì 23 aprile 2007

IL FUTURO DEL MOLISE PASSA PER LA FORMAZIONE DEI SUOI FIGLI



Piccola provocazione contro l’arcadia (sottosviluppata) molisana
di Maurizio Oriunno
dal mensile Il Bene Comune (marzo 2007)

La globalizzazione dei saperi impone oggi al sistema formativo italiano di rimediare al suo storico ritardo. Soltanto una decina di realtà pubbliche e poche private, che eccellono nel nostro sistema universitario, riescono a fornire strumenti e conoscenze adeguate per l’affermazione delle nuove generazioni in un mercato del lavoro che si è mondializzato. Riguardo all’atavico dibattito riguardante l’emigrazione dei saperi e dei mestieri dal Molise, che è determinante per influenzare gli scarsi indici di crescita di questa regione, sarebbe interessante proporre una provocazione alla classe politica molisana, partendo da un assunto.

I fondi europei e nazionali che sono piovuti sul Molise negli ultimi venti anni non hanno prodotto nulla o quasi. Sono bastati appena per la sopravvivenza delle nostre comunità, tra mille difficoltà e vertenze (l’ultima quella sul terremoto e la sanità) con i governi che si sono succeduti, e che, tranne alcune realtà del Basso Molise, sono ormai prossime alla scomparsa dalle cartine geografiche.

Il nuovo sistema infrastrutturale promesso dovrà avere il suo (lungo) corso e comunque collegherà tra venti anni (se tutto andrà per il verso giusto) zone scarsamente popolate e depauperate dalle giovani risorse. Scommettere fortemente sulla formazione per far crescere il Molise, investendo risorse finanziarie importanti del proprio bilancio per un sistema scolastico regionale capace, in termini di strutture, ricerca, innovazione ed eccellenza, di essere l’anello di congiunzione con il resto del Paese e del mondo, potrebbe essere una giusta cura per una terra che tutti diciamo di amare.

Il Molise deve riuscire a dare ai suoi figli tutte le possibilità migliori per poter emergere nel resto del pianeta, al pari dei loro coetanei americani, inglesi, tedeschi e indiani, purché l’esempio non sia quello di Pesche.

I molisani che verranno, dovranno porsi seriamente questo interrogativo: “Meglio un contratto da mille euro qui nel Molise o settemila in Australia, Arabia Saudita o Azerbaigian come tecnico, medico, manager?”

La questione già da tempo non si pone per milioni di ingegneri e medici indiani e cinesi che provengono dagli ottimi politecnici di quelle nazioni, pronti a lavorare in qualsiasi angolo del mondo e per qualunque paese del mondo a prezzi concorrenziali, sfornando eccellenti accenti e purezze linguistiche English, American English o rudezze Spanglish e Aussie, che leggono in poche ore analisi mediche e radiografie, inventano software, assemblano hardware. Le ultime notizie sulle due nazioni chiave dell’inizio di questo nuovo millennio vengono raccontate da Federico Rampini, giornalista di Repubblica e saggista di rilievo, esperto dell’Elefante indiano e del Dragone Cinese.

Nell’Inghilterra, che è stata il braccio armato di Bush nell’ultimo quinquennio e potenza mondiale, secondo Rampini: “I posti di lavoro legati alla pubblica amministrazione non sono al riparo dalla delocalizzazione. Il 70% delle attività di information technology in Gran Bretagna potrebbero essere spostate presto in India o in Cina. Lo ha detto Bill Thomas, capo della divisione europea di EDS, in un’intervista a The Daily Telegraph. Secondo il dirigente della multinazionale anche il settore pubblico è esposto a un “cambiamento drammatico” per effetto della concorrenza indiana e cinese nelle attività informatiche. EDS è una società americana con sede in Texas ed è il più grosso fornitore di servizi informatici per lo Stato inglese. Ha contratti di fornitura di servizi di lungo periodo con i ministeri della Difesa, del Lavoro e delle pensioni. Thomas ha detto che dal 60 al 70% degli 8.000 dipendenti della EDS legati alla pubblica amministrazione britannica ”non devono necessariamente essere inglesi o lavorare in Inghilterra”.

Una notizia, dunque, che dovrebbe fare rabbrividire anche il più pessimista dei politici locali. E’ chiaro che, in questo caso, la lingua è stata il velenoso ma prezioso collante naturale che ha coinvolto, in questo episodio, paesi di cultura anglosassone. E’ pur vero che trattasi di un dialogo tra giganti economici, politici e militari, tra i quali però l’Italia deve giocare un ruolo assolutamente decisivo per assicurarsi una fetta di futuro nei prossimi decenni.

Ma il Molise? Può una piccola regione oggi affine economicamente a quelle minori del Portogallo e della Grecia convogliare impegno verso un radicale e nuovo modello di sviluppo, tenendo conto di quanto accade fuori dai nostri confini?

Quale senso ha oggi programmare il futuro di questa regione come un enorme ospizio, dove continuiamo ossessivamente a ripeterci che l’aria è più o meno buona (ma è ottima anche in Slovenia, sui Pirenei e nel nord della Grecia), non c’è traffico (ma conoscete i paesi tedeschi o svedesi?) e la vita è a misura d’uomo (conosco dei paesi fiamminghi e spagnoli inimmaginabili)? Quanto ancora potrà durare questa truffa dell’Arcadia molisana?

Possiamo immaginare un sistema che spenda meno in sanità e spese accessorie della politica e della burocrazia e magari investa ingenti risorse finanziarie in formazione e ricerca, invitando fondazioni e istituti di cultura nazionali ed esteri che, nel tempo, rilascino saperi e investano conoscenza sul territorio?

Si tratta di investire su collegamenti reali e realizzabili, che vadano oltre gli approcci delle visite di cortesia di ambasciatori e consoli, dei protocolli d’intesa e di presenze imbarazzanti in programma televisivi e fiere. Nel Molise, lo scorso anno, afferma ultimamente il periodico della Confcommercio Molisana, i turisti hanno creato un valore aggiunto complessivo di soli 800.000 euro. Nello stesso periodo sono stati spesi, solo dall’ente Regione, ben 10 milioni di euro per interventi nel comparto turistico.

Un solo esempio che è calzante riguardo alla distanza geografica, storica e culturale che ci divide dal resto del mondo: l’aereoporto di Napoli Capodichino ed il porto di Napoli (nel 2006 record di traffico commerciale con 22 milioni di tonnellate di merci) dista da Campobasso soltanto 170 chilometri.

Per raggiungere il capoluogo regionale con un mezzo pubblico dall’aereoporto internazionale più vicino si impiegano dalle 3 alle 4 ore di treno (salvo ritardi o soppressioni). Stessi tempi medi per chi decide di viaggiare in autobus, ammesso che l’incauto visitatore del Molise riesca a scorgere il torpedone giusto nella follia di Piazza Garibaldi o il vagone nascosto al binario 19 della stazione.

Se sarà fortunato potrà gustarsi il tour campano molisano, che dalle prostitute nigeriane di Teano e Capua e le discariche di Marcianise, raggiunge l’anziana di Indiprete e i boschi di querce di Vinchiaturo: un viaggio fatto di fermate nel nulla, in stazioni e paesi vuoti, che eleva le anime di religiosi, poeti e letterati ma che invece, spesso, spazientisce quanti viaggiano per lavoro o chi (ed è la maggioranza della popolazione mondiale) proprio non ci riesce ad “elevarsi”.

Una corsa diretta in autobus Napoli – Campobasso (via Avellino – Benevento), senza fermate intermedie, impiegherebbe meno di due ore. Ma da Napoli, si sa, si continua a transitare solo da Venafro.

Il nostro territorio, la sua storia e le sue ricchezze, potranno emergere ed essere adeguatamente produttive quando riusciranno ad essere connesse, in modo equilibrato, ad una fitta rete di servizi alle persone e alle imprese, fortemente permeata di infrastrutture (anche telematiche) efficienti.

In altre parole, si tratta di fornire una strategicità al Molise costruita su basi reali e stimolare i giovani verso nuove e purtroppo dure consapevolezze nel campo dello studio e della formazione.

L’esperienza irlandese o spagnola è il modello da eguagliare in Europa, incidendo magari sugli aiuti reali alle imprese con servizi efficienti e personale (anche della Pubblica Amministrazione!) altamente specializzato. Così come appare di estremo interesse l’esperienza di Salvino Salvaggio, top manager di Guglionesi che gestisce il Parco Scientifico e Tecnologico del Qatar. La sua brillante storia è stata raccontata, nei giorni scorsi, in un servizio dell’ottimo Carlo D’Angelo sulle pagine telematiche di Primonumero.it. La sua testimonianza potrebbe rappresentare una sfida per quanti si affaticano a raccomandarsi al potente di turno per trovare un posto di lavoro (pur essendo laureati e specializzati) in un call center o come cassiere in supermercato (con tutta l’umano e civico rispetto per i lavoratori in questione) e di monito nei confronti della nostra classe politica perennemente a corto di strategie.

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